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sabato 18 aprile 2009

[Cinema] Fast and Furious - Solo parti originali


Attenzione, attenzione. Questo messaggio a reti unificate è indirizzato a tutti i “truzzi”, “coatti” e “bori” che popolano il nostro bel stivale. Signori, è giunto il momento. Scendete dai vostri alberi di frutta e cominciate a lucidare gli spoiler delle vostre auto, a far rombare i tubi di scappamento e muovere il bacino al ritmo dei bassi del vostro subwoofer. Il momento è giunto. Il re della giungla è tornato. Il Toretto è di nuovo in pista.

Dopo due divagazioni sul tema, Fast and Furious ritorna alle origini e con questo Solo Parti Originali riallaccia i fili lasciati in sospeso col film d’esordio, riprendendone e sviluppandone trama e personaggi. Con l’immancabile Paul Walker torna così anche Vin Diesel nei panni dell’ex galeotto più veloce d’America, alias Dominic Toretto, nuovamente tra le strade di Los Angeles per vendicare la perdita di una persona cara e per saldare i conti con l’immancabile vittima sacrificale di turno, in questo caso impersonato da un potente e spietato trafficante di droga col debole per le corse clandestine. E questo è quanto.

La serie non ha mai brillato per il suo spessore contenutistico e questo capitolo conclusivo non fa alcuna eccezione alla regola, proponendo un canovaccio narrativo che più classico non si può e riproponendo alcune delle tematiche centrali del capostipite, dal rapporto conflittuale tra Dom e Brian alla contorta storia sentimentale tra quest’ultima e la Toretto’s sister. Temi questi che non potranno non far piacere ai fan più accaniti della serie come lasciare del tutto indifferenti i neofiti, i quali dovranno fantasticare non poco per trovare un qualcosa di interessante al quale appigliarsi.

Per quanto riguarda il tasso di adrenalina, Justin Lin si conferma un discreto spacciatore di oppiacei visivi, e dopo Tokyo Drift ribadisce la sua disinvoltura dietro la macchina da presa nel dirigere e riprendere al meglio spettacolari e funamboliche scene d’azione. Peccato però che il climax, il tripudio di cavalli e testosterone, si trovi proprio in apertura di film, conferendo alla pellicola un andamento pericolosamente discendente, con finale quasi a trascinarsi nella sua imprescindibile prevedibilità. Ma del resto, quando vai Fast and Furious, questi sono i risultati.

domenica 29 marzo 2009

[PS3] The Wheelman


Vin Diesel è tornato. Con una concomitanza di eventi non certo casuale, il prestante attore americano torna nel mondo dell’intrattenimento in duplice ed esplosiva veste, accompagnando il suo ritorno sul grande schermo nel panni del celeberrimo Dominique Toretto con un gioco da egli ideato e interpretato. Wheelman, in pieno stile Vin Diesel, è una miscela esplosiva di inseguimenti mozzafiato e situazioni incandescenti al limite dell’assurdo, un titolo capace di mescolare la propria evidente impronta arcade con una spruzzatina di elementi free roaming. Sarà anche questo un successo, o gli schermi dei nostri televisori si riveleranno troppo stretti per le ambizioni dell’eclettico stuntman hollywoodiano?

Mi chiamo Milo Burik, e sono il tuo autista


In Wheelman prenderemo il controllo (chi l’avrebbe mai detto) proprio del buon Vin, a sua volta impegnato ad interpretate il ruolo di Milo Burik, agente speciale della CIA dedito più ai fatti che alle parole. Burik è appena arrivato a Barcellona dalla lontana Miami per sgominare un non precisato cartello di varie gang criminali, e per far questo dovrà prima infiltrarsi attraverso i ranghi di quest’ultime, offrendo ai rispettivi boss i propri servizi di insuperabile pilota. Con un canovaccio diventato ormai uno standard del genere, il gioco si dipanerà attraverso una serie di missioni prestabilite, con immancabili cut-scene di introduzione a precedere l’azione vera e propria. Nonostante l’intento di allestire una trama degna di un vero e proprio action movie, bisogna con leggerezza ammettere che trovare un senso logico nell’intreccio narrativo di Wheelman è un’impresa impossibile e decisamente fine a se stessa, con eventi e personaggi a sovrapporsi in delirante caleidoscopio intriso di puro non-sense. Le varie sequenze di intermezzo diventeranno così ben presto un semplice pretesto per mettere mano al voltante e alla pistola, regalando qui e là qualche sonora risata nell’ammirare le iperboliche spacconate di Milo, evidentemente incapace di relazionarsi con un altro essere umano senza insultarlo o prenderlo a calci nei denti.

Qui non siamo a Liberty City baby


La leggerezza e la vacuità della trama mi porta subito a dover sciogliere quello che potrebbe essere un pericoloso equivoco. Wheelman non è (e né cerca di esserlo), un clone di Grand Theft Auto. Nonostante il gioco si basi su un impostazione sostanzialmente free roaming, con una Barcellona liberamente esplorabile in ogni sua via dall’utente, i giochi Rockstar e Tigon Studios non potrebbero essere più diversi. Wheelman è fondamentalmente un gioco di inseguimenti arcade, nel quale il fulcro dell’azione si risolve in completare missioni a suon di sportellate e incredibili stunt a bordo dei più disparati mezzi a due e quattro ruote, il tutto correlato da una serie di attività opzionali in grado di accrescere le nostre abilità di pilota e quelle dei vari autoveicoli a disposizione. Di conseguenza, alcuni elementi tipici di questo genere di giochi nel titolo Midway non sono affatto presenti. Scordatevi ad esempio negozi di abbigliamenti dove poter fare shopping selvaggio, perché qui non esiste nessun locale da visitare, e da buon uomo di legge quale siete vi sarà impossibile rivolgere il fuoco delle vostre armi contro innocenti pedoni, con quest’ultimi ad essere totalmente immuni al piombo fuso. Insomma per farla breve, più che a GTA, Wheelman si rifà all’esempio della storica serie Driver, offrendo un’esperienza cittadina tipicamente on the road, con rare e sparute fasi appiedate disseminate qui e là.

Proprio come ai vecchi tempi

Il titolo Midway si libera volontariamente quindi di tutta quella sovrastruttura e di quegli orpelli presenti nei suoi illustri parenti per presentare un’esperienza di gioco immediata e improntata al puro divertimento. E in questo bisogna dire che riesce in pieno. Quando lo provai lo scorso Agosto a Lipsia i dubbi su sistema di controllo e sul modello di guida erano più di uno, ma in questi mesi i ragazzi di Tigon Studios hanno svolto davvero un lavoro encomiabile, trovando il giusto equilibrio tra facilità di utilizzo e feeling di trovarsi veramente dietro al volante. Guidare in Wheelman è facile quanto tremendamente adrenalinico, con la fisica curata ma volontariamente permissiva ad incitare una condotta spericolata, incentrata sempre sulla ricerca della manovra più spettacolare ai fini di accumulare del prezioso Focus. Ogni azione infatti, dal derapare col freno a mano a far devastazione di tavolini ed edicole col nostro mezzo, ripagherà il giocatore con del Focus, valore da utilizzare poi nel classico turbo o in azioni decisamente più originali e improbabili. Attraverso la mossa speciale Tornado ad esempio, Milo Buric compierà un improvviso testacoda, procedendo in retromarcia per alcuni istanti durante i quali potrà sparare ai veicoli degli inseguitori al ritmo di un ipnotico slow motion, con un sistema di mira potenziata che permetterà al giocatore di sparare direttamente ai pneumatici o al motore delle vetture, con risultati facilmente immaginabili. O ancora: il vostro mezzo è ormai ridotto ad un colabrodo dalle continue scariche di mitra e sportellate dei vostri nemici? Nessun problema. Grazie all’Air Jack, il vostro Milo di quartiere è in grado di saltare in corsa da una macchina all’altra, appropriandosi del veicolo dinanzi a se con un balzo felino e disarcionando on the fly il fu conducente del mezzo, permettendo così di passare all’occorrenza da un pesante tir con rimorchio ad una prestante moto da corsa e seminare con più facilità gli scagnozzi di turno.


Tutti questi elementi finiscono per integrarsi tra loro alla perfezione, facendo di Wheelman un’esperienza arcade di grandissimo impatto e adrenalina, capace di scongiurare il pericolo frustrazione grazie anche ad una serie di oculati checkpoint interni alle varie missioni. Unico neo in tutto questo risultano quindi le fasi appiedate, dove i furiosi inseguimenti lasciano lo spazio a scialbe e poco ispirate sparatorie, nelle quali ad un intelligenza artificiale dei nemici praticamente inesistente fa il paio un sistema di controllo decisamente approssimativo, quest’ultimo sì apparentemente preso di peso proprio da GTA. Fortunatamente però queste sessioni rappresentano soltanto una parte infinitesimale dell’esperienza di gioco, e sono oscurate ancora di più da tutta una nutrita serie di missioni secondarie presenti basate sul lato automobilistico del gioco.

Strada sconnessa

Tecnicamente il titolo in questione presenta alti e bassi piuttosto evidenti. I bassi sono palesemente sottolineati dalle sequenze d’intermezzo, realizzate in maniera davvero dozzinale non solo per quanto riguarda la sceneggiatura, ma soprattutto per quanto concerne modellazione poligonale, animazioni e qualità delle texture. Sorprende riscontrare questi difetti in un gioco che si prefigge di ricreare l’atmosfera tipica di un lungometraggio, eppure la scarsa cura riposta in questo frangente appare netta, aggravata e palesata ancora di più dalla pessima sincronizzazione tra labiale e parlato, con alcune situazione a divenire a dir poco grottesche. Fortunatamente però durante l’azione vera e propria il gioco si riscatta alla grande, fornendo non solo una riproduzione di Barcellona fedele e piuttosto curata, ma mettendo su schermo un gran numero di vetture corredata da una buona interattività dello scenario e da un frame rate assolutamente granitico, inchiodato stabilmente sui 30 fps. Come la grafica anche il sonoro presenta un encefalogramma piuttosto ballerino, con buone musiche e un discreto numero di canali radio presenti a lasciare il passo ad un doppiaggio davvero poco ispirato, dove a risplendere è soltanto la voce cavernosa e convincente del Vin Diesel nostrano.

Commento finale

Wheelman è il classico gioco che non ti aspetti. Prendendo come basi un’impostazione free roaming comune ad altri titoli in commercio, il gioco di Tigon Studios si differenzia nettamente da quest’ultimi per la sua azione adrenalinica a prettamente arcade, dove trama e personaggi sono un mero pretesto per mettere in scena i più spettacolari inseguimenti automobilistici mai apparsi su console. In un certo senso Wheelman è quasi un ritorno alle arcaiche e più profonde origini del videogioco. Scevro da ogni pretesa intellettualoide, la pazza corsa di Vin Diesel elargisce divertimento a piene mani, proponendosi come un ottima scelta per coloro i quali fossero alla ricerca di un gioco immediato ed elettrizzante, privo da qualsiasi fronzolo. Alcuni difetti sono indubbiamente presenti, e si concentrano più che altro nella fasi da giocare a piedi e in qualche sbavatura tecnica di troppo, ma tutto sommato sono vizi minori in un’opera che infin dei conti riesce in pieno nel suo intento. Ovvero divertire.

giovedì 26 marzo 2009

[PS2] Ultimate Ninja 4: Naruto Shippuden

Dopo il felice debutto su PS3, CyberConnect2 ritorna sulla sua console d’origine per portarci Ultimate Ninja 4: Naruto Shippuden, ultimo capitolo della serie e il primo a presentare le avventure e i personaggi del Naruto ormai adolescente. Ma basteranno un cast numericamente esorbitante e i soliti spettacolari jutsu e sopperire alle lacune di una modalità principale alquanto bizzarra e di un sistema di combattimento rimasto invariato in tutte queste edizioni? La risposta, lo anticipo già da ora, è purtroppo un deciso no.


Le dodici fatiche del Ninja


Assente del tutto il classico Arcade Mode, la modalità principale di Ultimate Ninja 4 è il così detto Master Mode, una sorta di grezza avventura 3D (tra l’altro già presente nei precedenti capitoli) attraverso la quale seguiremo i primi passi di un Naruto ormai maturato, passando dall’allenamento con l’eremita dei rospi Jiraya fino al rapimento di Gara da parte della pericolosa organizzazione Akatsuki. Come qualche conoscitore del manga avrà già intuito, la parte di storia narrata in questo Master Mode è piuttosto esigua, coprendo di fatto giusto un paio di volumi del manga e presentando tra l’altro numerose inesattezze, palesando come siano stati introdotti combattimenti e situazioni mai esistiti nel tentativo di allungare un po’ il brodo. Ma il difetto di questa modalità non risiede nella sua scarsa longevità, anzi tutt’altro. Il problema è che il Master Mode è realizzato in maniera a dir poco pedestre, presentandosi non solo incredibilmente scialbo dal punto di vista tecnico, con enormi ambienti vuoti afflitti da continui problemi di pop-up ed evidente fogging, ma esibendo anche un gameplay ridotto veramente ai minimi termini, con l’utente condannato a vagare alla ricerca di vari item disseminati per i livelli e intraprendere ogni tanto qualche rudimentale combattimento in 3D. Il Master Mode finisce così quasi per essere una sorta di punizione, una prova di sopportazione da affrontare per sbloccare vari bonus (tra i quali i numerosissimi personaggi non selezionabili sin dall’inizio) e i vari combattimenti dell’Hero Mode, seconda modalità attraverso la quale sarà possibile invece rivivere tutti gli episodi chiave dell’intera storia di Naruto. L’Hero mode è quindi inestricabilmente connesso al Master Mode, obbligando il giocatore ad esplorare affondo quest’ultimo per poter godere appieno del primo. Una scelta apparsa sinceramente incomprensibile.


Esame da Jonin: fallito


Passando in esame il combattimento vero e proprio, qui le novità a riguardo rasentano invece lo zero assoluto. Invariato nei controlli, i duelli tra i ninja si basano ancora principalmente sull’accumulo di chakra e sull’utilizzo dei Jutsu, che altro non sarebbero se non spettacolari super mosse in grado di arrecare ingenti quantità di danno. E sono proprio i Jutsu (o Ougi) a prendersi di prepotenza la scena, incantando per la loro superba realizzazione grafica e per la loro fedeltà all’opera originale, invogliando di fatto l’utente a sperimentare ogni personaggio del gioco solo per assistere a queste mirabolanti sequenze animate. Peccato che oltre a questo ci sia davvero poco, e una volta assistito a tutti i Jutsu presenti del gioco sarà davvero difficile trovare altri motivi per continuare ad inserire il dvd di Ultimate Ninja 4 nella PS2, visto che l’estrema semplicità del sistema di combattimento renderà ben presto i vari scontri piuttosto piatti e monotoni. Dei cambiamenti sarebbero stati necessari e sicuramente graditi, ma i programmatori hanno preferito concentrarsi su elementi più marginali, lasciando così ancora una volta invariato l’ormai obsoleto sistema di combattimento. Inoltre va aggiunto che buona parte dei numerosi personaggi e Jutsu presenti nel gioco non saranno selezionabili sin dall’inizio, ma dovranno essere sbloccati mediante del denaro ricevuto giocando le due modalità principali, costringendo così il giocatore ad una lunga e solitaria fase di “grinding” prima di provare a godersi appieno il gioco contro un avversario umano. Altra decisione quantomeno discutibile e controversa.


E’ difficile raccomandare a qualcuno questo Ultimate Ninja 4: Naruto Shippuden. I fan più sfegatati della serie infatti apprezzeranno sicuramente il grande numero di lottatori a disposizione, ma non potranno che storcere il naso nei confronti di una trama presentata solo in parte e stravolta da omissioni e arbitrari cambiamenti. Coloro invece alla ricerca di un buon picchiaduro andranno invece a cozzare contro un sistema di combattimento afflitto da una semplicità e una piattezza piuttosto disarmante, al quale si aggiunge la totale mancanza di un arcade mode e l’obbligo di affrontare il dimenticabile Master Mode per poter accedere all’intero cast del gioco. Insomma, da qualunque parte lo si osservi, questo Ultimate Ninja 4: Naruto Shippuden non convince affatto, presentando lacune e mancanze in grado di indispettire entrambe le utenze. Peccato.

domenica 22 marzo 2009

[Cinema] In The Name of The King


Farmer (Jason Sthatam) è all’apparenza un semplice contadino, dedito soltanto alla cura della terra e della sua famiglia, composta dalla splendida moglie Solana (Claire Forlani) e dal loro vispo figlioletto. Un infausto dì però il suo idillio rurale viene bruscamente infranto dall’arrivo dei Krug, decerebrati umanoidi al servizio del potente mago Gillian (Ray Liotta), intenzionato a sovvertire la reggenza di re Konrad (Burt Reynolds) ed estendere il suo oscuro giogo su tutto il mondo conosciuto. Messo alle strette, il nostro eroe sarà così costretto ad accantonare la zappa e a passare alle maniera forti imbarcandosi, accompagnato nell’impresa da una pletora di insignificanti e dimenticabili figuri, in un avventura ricca di clichè e sbadigli fino all’immancabile e liberatorio duello finale.


Uwe Boll ha indubbiamente un dono. O perlomeno possiede un abilità unica del suo genere. Non deve essere stato facile infatti, con 60 milioni di budget alle spalle e un cast di assoluto livello a disposizione, riuscire a sfornare un film di tale insipienza e banalità come questo In The Name of The King. Il teutonico visionario però, tenendo fede alla nomea di peggior regista del mondo, titolo ormai riconosciutogli all’unanimità dalla critica specializzata, è riuscito anche questa volta a superare se stesso, sfornando una pellicola degna del miglior Fantaghirò d’annata, riportando il genere fantasy (portato da Peter Jackson a livelli di assoluta eccellenza) indietro di una ventina di anni. Sono tante e tali le storture presenti nell’orrorifica pellicola di Boll che farne l’elenco sarebbe proibitivo quanto superfluo. Dalla pedestre incuria risposta nei costumi e negli effetti speciali, con i Krug ad essere usciti da una puntata a caso dei Power Rangers, alla totale mancanza di coerenza storica e stilistica, con ninja ad appaiarsi a guerrieri a cavallo e duelli all’arma bianca a lasciare il posto ad improbabili mosse di kung-fu ed imbarazzanti quanto deprimenti calci volanti. E’ un circo quello messo in piedi dal regista tedesco che lascia a bocca aperta per l’opprimente pressappochismo e l’offensiva stupidità reiterata senza soluzione di continuità per tutti 124 minuti di durata della pellicola. Un B-Movie in piena regola, sul quale però pesa l’abnorme aggravante di uno spropositato budget impiegato non si sa come e la pessima gestione di un gruppo di attori di sicuro e accertato talento.


Uwe boll è ormai entrato nella leggenda. Come Re Mida nell’antichità trasformava tutto quello su cui posava mano in luccicante oro, il teutonico film maker ha invece dalla sua la meno regale abilità di trasformare ogni cosa sulla quale lavora in un composto organico di non grandissima nomea. L’augurio e che qualcuno prima o poi si accorga di questo equivoco e metta questo regista al posto che gli compete. Ovvero in platea.

venerdì 6 marzo 2009

[360] Silent Hill Homecoming



Nell’ormai lontano 1999, il primo Silent Hill strinse con la sua onnipresente nebbia i giocatori di tutto il mondo in un inedito e inquietante incubo. Con un inversione a novanta gradi rispetto alla concezione di horror espressa dal Resident Evil di Capcom, il gioco Konami non si servì di zombie e altre orride aberrazioni mutanti per terrorizzare l’utente, ma optò per un approccio più psicologico, immergendo il giocatore in un mondo fatto di buio e silenzio, di spettrali risate e di destabilizzanti brusii, dove il senso di isolamento e la paura dell’ignoto giocavano un ruolo decisivo e fondamentale. Ora, dieci anni dopo, le cose sono molto cambiate. Dopo un eccellente secondo episodio, la macabra magia degli inizi è andata via via scemando nel corso delle varie reiterazioni, dovendosi scontrare nel mentre anche con una concorrenza sempre più agguerrita, con nuovi e validi sfidanti a contendersi un posto di rilievo nel genere dei survival horror. Ora con questo Silent Hill: Homecoming Konami tenta di rientrare in carreggiata e, affidando lo sviluppo agli americani Double Helix Games, porta finalmente la serie sulle console di nuova generazione. Ma basterà questo per tornare ai gloriosi fasti di un tempo?

Mamma sono a casa!



La trama di Homecoming pare pescare a piene mani da molti dei clichè tipici della serie, aggiungendo elementi presi dallo stesso film Silent Hill e condendo il tutto con scene di efferata violenza che sembrano, neanche tanto velatamente, strizzare l’occhio a pellicole come Hostel e i vari Saw. Inizialmente ricoverato in un ospedale frutto soltanto della sua mente, Alex Shepard, un militare ormai in congedo, scoprirà una volta tornato a casa non soltanto che il suo fratello minore è scomparso apparentemente nel nulla, ma che la stessa sorte è capitata anche a buona parte dei suoi concittadini, rimpiazzati perlopiù da sinistre ed inquietanti creature. Il suo pellegrinare lo porterà ben presto (quando si dice la sfortuna) proprio nella rinomata località turistica di Silent Hill, e da lì in un tunnel di orrore e morte dal quale il nostro eroe dovrà cercare di uscirne sano e salvo. Malgrado il lodevole tentativo di tentare di intelaiare una trama priva di quei contorti passaggi e di quei buchi logici che spesso hanno afflitto i capitoli precedenti, Homecoming soffre di una narrazione eccessivamente prevedibile e purtroppo ricca di molti degli stereotipi del genere, pagando in particolare un inizio col freno a mano tirato, con gli eventi a rendersi particolarmente interessanti solo a partita molto inoltrata. Infine, discostandosi piuttosto bruscamente dall’horror psicologico al quale la serie ci aveva abituati, il gioco non si fa scrupoli nell’elargire un numero cospicuo di scene tipicamente splatter, palesando così ancora di più il cambio avvenuto in cabina di regia.

Niente può fermare un soldato



Per quanto riguarda il gameplay, non molto è cambiato. Abbastanza sorprendentemente, i maggiori sforzi sono stai profusi sul sistema di combattimento corpo a corpo, che ora risulta più coinvolgente e dinamico. Da buon ex-soldato infatti Alex non condivide l’impaccio e la poca dimestichezza con le armi che accomunavano i protagonisti dei precedenti episodi, dimostrandosi estremamente abile nell’affrontare le varie creature con le quali avrà il dispiacere di entrare a contatto. Dotato dell’inedita possibilità di schivare gli attacchi dei nemici mediante rapidi scarti laterali o una capriola a terra, anche il meno abile dei giocatori riuscirà in breve tempo a rendere ogni scontro poco più di una semplice formalità, grazie anche all’efficacia dei fendenti sferrati da Alex, ora concatenabili in devastanti combo e contrattacchi. Questo purtroppo col proseguire dell’avventura finisce per sminuire eccessivamente il ruolo delle varie mostruosità che via via incontreremo sul nostro cammino, e benché questo fosse un difetto presente in quasi tutti i capitoli della serie, in questo caso il difetto è acuito dal maggior frequenza e numero delle creature, che ben presto non diverranno altro che meri ostacoli posti fra noi e il nostro prossimo obiettivo. Per il resto nulla è variato, con esplorazione ed enigmi a costituire ancora buona parte della base portante dell’esperienza di gioco segnata, come vuole la tradizione, da varie scelte ad opera del giocatore che porteranno infine a uno dei vari epiloghi possibili.

Un lavoro ben eseguito



Tecnicamente, i ragazzi di Double Helix Games hanno fatto senza dubbio un lavoro soddisfacente. Pur non avvicinandosi alle vette raggiunte da questa generazione (Dead Space è lontano), Silent Hill: Homecoming ammicca all’occhio del giocatore con ambientazioni sapientemente realizzate e dettagliate quanto basta, rese ancora più vivide e convincenti da un sistema di fisica in tempo reale. Menzione speciale per il passaggio in tempo reale dalla dimensione normale a quella demoniaca (altro chiaro rimando alla parzialmente omonima pellicola), con mura ed oggetti a sgretolarsi in sinistri coriandoli e a ripresentarsi con fattezze orride e deformate. Certo, qualche difetto c’è, dalle texture non sempre all’altezza a qualche animazione non proprio riuscitissima, ma sono peccati che non deturpano più di tanto il quadro generale di una realizzazione tecnica comunque lodevole. Superlativi come al solito invece effetti sonori e musiche, quest’ultime composte ancora una volta dal maestro Akira Yamaoka, a quanto pare incapace di comporre qualcosa che si distanzi dalla pura eccellenza.

Commento finale

Silent Hill: Homecoming poggia le sue basi su quello che di fatto è un equivoco di fondo. La serie survival horror di Konami ha sempre fatto tesoro nel corso degli anni dell’estro e della creatività dei suoi artisti, ora stupendo con atmosfere e ambientazioni uniche e agghiaccianti, ora ammaliando con intrecci e personaggi degni di un lungometraggio. Privato di questi flussi creativi, quello che resta è un’avventura horror dall’impronta fortemente lineare, caratterizzata da impianto di gioco piuttosto anacronistico e un andamento alquanto flemmatico. Non che Homecoming sia un brutto gioco, tutt’altro. Ma la sensazione è che Double Helix Games abbia svolto il compitino assegnatogli senza andare oltre, dando in pasto ai fan quanto basta per tenere buoni gli animi fino al fatidico giorno. Il giorno nel quale il Team Silent si rimetterà finalmente all’opera.

mercoledì 4 marzo 2009

[Cinema] Watchmen


Non è più tempo di battute per il Comico. La macchia che lentamente avvolge l’asfalto e accarezza con un baffo l’asfittico sorriso di una spilla non è soltanto quella lasciata dal sangue di Edward Blake, sdraiato sull’asfalto dopo un volo di sola andata dalla vetrata del suo attico, ma è il simbolo di una minaccia più grave e incombente, che attraverso le sue intangibili spire sta portando il mondo verso l’olocausto totale. E’ il 1985 di una realtà parallela e opposta alla nostra: l’America è uscita vittoriosa dal Vietnam, l’insipiente naso di Nixon siede ancora saldo sul trono della Casa Bianca e la corsa all’armamento nucleare con l’Unione Sovietica non ha mai conosciuto battute d’arresto. A mantenere il mondo in equilibrio instabile sul precipizio è la figura di Dottor Manhattan, entità dai poteri pressochè divini e membro di una vecchia e ormai in pensione combriccola di supereroi, che causa forza maggiore torneranno in pista nel tentativo di sventare una cospirazione ben più grande di loro, nel disperato e affannoso tentativo di evitare che “L’Orologio del Giorno del Giudizio” rintocchi la sua prima e ultima mezzanotte.


Nata dalla mente di Alan Moore e delineata dal tratto di Dave Gibbons, “Watchmen” al momento della sua uscita riscrisse i canoni del suo universo di riferimento, quello dei supereroi, ampliandone i confini e donando agli eroi in calza maglia una maturità prima mai neanche sognata, portando l’opera del duo britannico ad assurgere al titolo di graphic novel, ossia di un vero e proprio romanzo illustrato. Per la prima volta, con la dovuta eccezione dell’iperbolico Dottor Manhttan, a rivestire i panni degli eroi non la solita schiera di impeccabili super uomini, ma ritratti di umanità dilaniate da vizi e paranoie, resi opachi e indecifrabili da nevrosi e traumi mai sanati . A far da contorno a questo danzare di anime perse eppure volenterose di dare un senso al loro sconnesso incedere c’è un universo ancora più oscuro e malato, un’America schiacciata e messa sulla gambe dal peso del suo stesso sogno e una società prigioniera della psicosi di un potere sempre più in mano di pochi eletti, in grado di orientare con scelte arbitrarie il destino di molti.


Per portare una simile opera sul grande schermo si trattava solo di scegliere con cura il come e il quando, e ci è voluto infine lo sfrontato coraggio di Zack Snyder (già regista del “300” di Frank Miller) per trasformare quello che a molti sembrava impossibile in quasi tre ore di pellicola. Quello che ne è uscito fuori è un’opera che lotta con tutte le sue forze per essere il più possibile fedele alla sua musa ispiratrice, facendosi mute beffe più volte dei tempi e dei ritmi cinematografici in nome di una riproposizione quasi episodica dell’intera vicenda, con evidenti quanto silenti cambi di registro a tonalità a susseguirsi per tutta la durata della visione. Questo fa sì che il film risplenda in maniera direttamente proporzionale rispetto alla luce irradiata dai personaggi sui quali di volta in volta stringe l’obiettivo, ora riverberando di cupe tonalità emanate dalla personalità sofferente eppure integerrima di Rorschach, ore evaporando nei dubbi eterei e metafisici del meditabondo Dottor Manhattan. Il regista calca la mano col suo stile potente e visionario, regalandoci nelle scene più concitate diapositive di grande impatto emotivo, ma in alcune circostanze pare spingersi un po’ oltre, non capendo forse che una bella donna può essere tale per quello che è, senza bisogno di orpelli e un trucco pesante a banalizzarne la primitiva bellezza.


Ma, allargando in ultima analisi gli orizzonti, “Watchmen” sembra condividere con “Il Cavaliere Oscuro” la stessa cifratura e la medesima schizofrenia espositiva. Nolan così come Snyder sembrano abbinare l’esuberanza del genio alla mancanza di una dovuta misura, l’incontenibile volontà di potenza e di espressione al diniego di quegli equilibri e quelle limature proprie dell’opera filmica. Gloriosi campioni di un nuovo modo di fare cinema, entrambe le pellicole hanno delineato con forza la nuova via intrapresa dal film di genere americano. E nessuno, almeno al momento, sembra intenzionato a tornare indietro.

lunedì 16 febbraio 2009

[Cinema] Il Primo Respiro


E’ una storia vera. L’abbiamo vissuta tutti. Succede da sempre. Anche adesso, in questo preciso istante. Avviene simultaneamente ai quattro angoli del mondo. E’ una storia che si ripete 364.501 volte al giorno. E’ la storia della nostra nascita.

Il primo alito di vita emesso nel mondo esterno. Il primo sferzante raggio di luce ad accarezzare i nostri occhi ancora ignari. E’ la nascita il tema del nuovo lungometraggio di Gilles De Maistre, che abbandona brevemente il palcoscenico televisivo per portare sul grande schermo un documentario lirico e toccante, la cui realizzazione ha richiesto due anni di pianificazione e riprese e un pellegrinaggio incessante attraverso tutti e cinque i continenti del nostro pianeta. Il regista francese, tramite il suo sguardo curioso e indagatore, ci prende per mano, mostrandoci il miracolo della nascita attraverso il travaglio di dieci donne i cui destini e condizioni geografiche e sociali non potrebbero essere più diverse.

Si passa così dal parto in acqua in compagnia del brioso canto dei delfini tra le placide onde del mar del Messico alla minuta ma tenace ragazza siberiana, costretta dagli oltre cinquanta gradi sotto zero della sua terra ad abbandonare momentaneamente la sua comunità di nomadi per partorire al sicuro, tenuta al caldo dalle quattro mura di un ospedale sperduto ai confini del mondo. E ancora, faremo la conoscenza di una giovane genitrice indiana, divisa tra la felicità per la nuova nascita e il crudo calcolo di quanto possa essere sconveniente avere una figlia in una società a forte e indiscutibile impronta maschilista. Scegliendo come trait d’union di realtà e culture tanto diverse un fenomeno della natura estremamente raro come un eclissi solare totale, il regista francese sonderà ogni parto senza la minima restrizione, svincolandosi dal comune, e probabilmente bigotto, senso del pudore per rivelarci con forza tutta la bellezza della natura nel suo momento più alto, quello delle fioritura, dello sbocciare di una nuova, unica ed irripetibile esistenza.

Pochi o nessuno gli orpelli presenti. Il film è con leggerezza narrato dalla profonda voce di Isabella Ferrari, il cui caldo timbro ci presenterà con soave leggerezza le varie situazioni nella loro essenzialità, lasciando alle immagini il compito di dar vita a queste storie attraverso gli sguardi, le espressioni, i sorrisi, le rughe di ognuno di questi straordinari attori naturali. Se c’è da riscontrare una forzatura è nel voler promuovere, in maniera neanche troppo velata, una sorta di superiorità del parto naturale rispetto a quello con assistenza medica, promulgando con decisione un ritorno alla liricità delle origini rispetto al fredda gestione di una odierna realtà ospedaliera.

E’ un messaggio promosso a gran voce per tutta la durata della pellicola, durante la quale si contrappongono la poesia e lo stupore di nascite avvenute ai piedi del Kilimangiaro o tra le caleidoscopiche onde del mare a disumani parti stile catena di montaggio ambientati nello squallore del più grande centro per l’infanzia del Vietnam. Ma è un appello che sa di pretestuoso e che non mancherà di causare sconcerto nelle menti meno suggestionabili. Il voler lasciare fare alla natura il suo corso non dovrebbe di per sé escludere una sacrosanta e dovuta assistenza medica e alcuni episodi, come quello della donna canadese arrivata quasi a perdere la vita pur di partorire in casa, o quello della giovane tuareg il cui figlio perirà a telecamera accesa, non potranno che causare del genuino e inquietante sconcerto, chiedendosi fino a dove sia lecito spingersi in nome della veridicità di quanto si sostiene e si afferma.

venerdì 13 febbraio 2009

[Cinema] Viaggio al centro della Terra 3D


Alcuni film, si sa, si scrivono praticamente da soli. Prendete ad esempio il non proprio eclettico Brendan Fraser. Ora, mettetegli accanto una spalla giovane e possibilmente avvenente (in questo caso l’algida bellezza di Anita Briem), aggiungete Josh Hutcherson (Un ponte per Terabithia) nei panni dello scontroso nipotino, inserite nel calderone qualche improbabile mostro, spettacolari esplosioni e spericolate acrobazie e vedrete che pian piano la pellicola acquisterà consistenza, prenderà forma da sé e, mettendosi in piedi sulle sue fini gambe di celluloide, si recherà senza timore alcuno in gran parte delle sale cinematografiche del globo, tornano infine all’ovile con in dono un incasso da svariati milioni di dollari.


E’ questo il caso di Viaggio al centro della terra 3D, ennesimo adventure movie adatto a tutte le età nel quale i nostri prodi eroi, ricalcando le orme letterarie del quasi omonimo romanzo di Jules Verne, si imbarcheranno per un viaggio diretto appunto proprio nel cuore del nostro bel pianeta alla disperata ricerca di uno zio ormai da lungo tempo scomparso. Tra tumultuosi vulcani, enormi pesci volanti e uno spaventoso tirannosauro, i nostri troveranno infine non solo la via di casa, ma anche un’affinità da tempo perduta e nuovi e romantici legami Il canovaccio è quindi quanto di più classico ci possa essere, ma la pellicola ha dalla sua la qualità di non prendersi giustamente mai sul serio, adottando un tenore scanzonato e divertito per tutta la sua breve durata, e abbinando a questo un ritmo serrato e privo totalmente di tempi morti.


Ma come i più astuti di voi avranno già notato leggendo il nome in locandina, in questo film c’è qualcosa in più. E questo qualcosa è, ohibò, un ulteriore dimensione. Riportando in vita infatti una tecnologia prematuramente data come defunta, il mago degli effetti speciali Eric Brevig resuscita dal passato fortunatamente non solo quell’offesa al buon gusto che furono gli occhiali a lenti rossoverde degli anni ’80, ma rispolvera anche l’inversamente consequenziale tecnologia 3D, innalzandola a fasti mai raggiunti prima e dando alla cinematografia un (perdonate la facile battuta) “nuovo spessore”. I primi minuti con sul naso questi buffi occhiali saranno infatti di puro stupore, e faranno tornare bambini anche i più geriatrici tra di voi. L’effetto di immersione e di coinvolgimento riesce ad essere difatti incredibilmente reale e, essendo l’intera architettura del film costruita sull’esaltazione di questa tecnologia, ci sarà più di un momento capace di lasciare a bocca aperta lo spettatore, ora aggredito da una infida pianta carnivora, ora disperatamente aggrappato ad un carrello durante una folle corsa all’interno di una miniera abbandonata.


Questa dipendenza e a sua volta valorizzazione delle tecnologia 3D è al contempo il cavallo di battaglia e il tallone d’achille di tutto quanto il progetto. Perché se dà una parte è innegabile la prorompente forza visiva data alle immagini dal ritrovato effetto di profondità, dall’altra una volta assuefattisi alla novità l’eccitazione non potrà che scemare in un finale dove ormai l’abitudine avrà scalzato il fervore iniziale, e dove la semplicità del sostrato narrativo comincerà a mostrarsi in tutta la sua vacuità. Ancora peggio ovviamente nel caso il film venisse proiettato in una sala non attrezzata per la visione a tre dimensioni, situazione quest’ultima che finirebbe però per svilire oltre i suoi demeriti una pellicola che ha invece il gran pregio di riportare alla ribalta una tecnologia dalle enormi possibilità, aprendo per il futuro porte prima neanche lontanamente immaginabili.

giovedì 29 gennaio 2009

[Cinema] Stella


Parigi, fine anni settanta. Stella è soltanto una ragazzina di undici anni, eppure crede di essere già una donna. Cresciuta infatti sul bancone del bar di periferia gestito dai suoi genitori, Stella ha dovuto ben presto lasciarsi dietro i giochi da bambina per venire a contatto con una società fatta di alcolizzati, giocatori d’azzardo, disadattati che non fanno altro che ritrovarsi nel locale di gestione familiare dove ogni sera si inscenano siparietti non proprio edificanti. E sarà con questo background che Stella approderà suo malgrado in una prestigiosa scuola tramite la quale, complice l’improbabile amicizia con la vispa Gladys, ragazzina proveniente da una famiglia di letterati ed artisti, la piccola “scugnizza” parigina aprirà la propria mente ad un nuovo mondo, soppiantando pian piano quello precedente composto solamente da emarginazione e poster ingialliti.


La pellicola di Sylvie Verheyde (in buona parte una storia autobiografica) è dunque il classico film sul disagio sociale, sul come le condizioni materiali e ambientali possano influenzare, e in molti casi castrare del tutto, il diritto alla crescita e allo sviluppo personale e culturale propri di ogni essere umano. Stella è una ragazzina brillante, curiosa della vita e attratta da essa in ogni suo aspetto, eppure la sua mente è inaridita e svilita da un ambiente soffocante, dove ad una madre sempre indaffarata a servire i clienti al bancone si appaia un padre lacerato dal mal di vivre e che trascorre le sue giornate fumando sigarette e giocando a stecca col suo amico d’infanzia, il recentemente scomparso Guillame Depardieu. Attorno a questo nucleo orbitano poi tutta una serie di anime perdute, di vite spezzate, di fiori mai sbocciati ma subito appassiti, che trasmettono agli occhi della giovane bambina l’immagine stessa della desolazione, dalla quale comunque lei riuscirà infine a tirarsene fuori.


Perché, in tutto questo, Stella (interpretata con convincente delicatezza dalla brava Leora Barbara) si può considerare una bambina fortunata. Nonostante l’impatto durissimo con la nuova ed esigente realtà scolastica e il duro scontro con dei compagni considerati dei “ragazzini” e un corpo insegnante inizialmente ostile nei suoi confronti, alla fine dell’anno Stella farà tesoro dell’esperienza avuta in dono rendendosi conto, nonostante la sua tenera età, di come quella appena datale fosse l’unica occasione per crearsi un futuro vissuto in prima persona, lontana dalle catene che l’ignoranza e l’emarginazione impongono sui propri prigionieri. Ed è la stessa regista sul finire del film a farci intendere come Stella sia una privilegiata mostrandoci, mediante un malinconico excursus nelle campagne francesi, come per molti quest’occasione non arrivi mai, con intere generazioni a vagare perduta tra violenza e ignoranza.

Stella quindi ci ricorda il valore fondamentale dell’istruzione, di come essa possa, e anzi sia fondamentale, per tingere il nostro mondo di opportunità e di affermazione sociale ed individuale. In alcuni punti l’opera ella Verheyde pecca forse di eccessiva enfasi, di un tono eccessivamente e marcatamente patetico, ma resta comunque un’opera di formazione genuina e verace, capace di far riflettere come di commuovere lo spettatore.

venerdì 16 gennaio 2009

[PC] Experience 112


Lea Nichols è rimasta in coma a lungo. Al suo risveglio all’interno di EDEHN, enorme nave mercantile adibita a laboratorio per avanzate e segretissime ricerche biologiche, scoprirà che la realtà come la conosceva un tempo ora vive soltanto nei suoi ricordi. Tutti i suoi colleghi infatti sembrano essere morti o spariti nel nulla, i laboratori sono stati distrutti e la stessa nave è ora invasa da una folta e singolare vegetazione che sembra cingerla in un decadente abbraccio di morte. Per quanti anni la dottoressa è rimasta incosciente? E come è possibile che in tutto questo tempo lei non sia invecchiata neanche di un giorno? Ma soprattutto, cos’è successo dentro EDEHN? Lea è intenzionata a risolvere ognuno di questi misteri, ma per farlo avrà bisogno di una seconda persona, avrà bisogno di voi. Sarete all’altezza dell’arduo compito?

Un “experience” piuttosto singolare


La nota decisamente originale di Experience 112 è che per una volta il giocatore non andrà ad impersonare il protagonista dell’avventura, in questo caso la risoluta Lea, ma verrà invece calato nei panni di un’oscura terza persona, la quale darà istruzioni a Lea mediante l’uso di telecamere e luci. In una sorta di esperimento meta-videoludico quindi sarete, anche nel gioco, l’uomo (doppiamente?) davanti al computer, occupato nella realtà come nella dimensione ludica ad operare attraverso tastiera e vari menù a finestra. L’interfaccia di gioco base sarà pertanto la fedele riproduzione della schermata del computer della sala sicurezza, con voi a destreggiarvi tra le mappe dei vari livelli della nave, l’archivio e la relativa documentazione dell’equipaggio, e soprattutto ad adoperare le telecamere del sistema a circuito chiuso, unico punto d’osservazione possibile su Lea e sugli accadimenti in corso. Di fatto, il giocatore sarà la guida della protagonista, instaurando con lei, col passare del tempo, un rapporto di fiducia e di mutuo soccorso, con la dottoressa pian piano a sbottonarsi sempre di più, rivelando importanti retroscena fino a condividere con voi importanti segreti personali. E’ un escamotage questo che in buona parte funziona, portando il giocatore ad interessarsi di Lea, a prendere a cura le sue sorti e a cercare in tutti i modi di portarla il prima possibile in salvo; che il tutto avvenga anche grazie al design velatamente sexy della protagonista non è che la conferma dell’ottimo lavoro svolto da Lexisnumérique a riguardo.

Che mal di testa

Se quindi le premesse del titolo sono decisamente originali, quello che andremo a fare nel corso dell’avventura lo sarà molto meno. Di fatto il gameplay di Experience 112 si limita alla meticoloso setacciamento di ogni ambiente alla ricerca di indizi ed elementi utili per proseguire, i quali porteranno praticamente sempre alla risoluzione di qualche enigma o gioco matematico. Si può dire anzi che il gioco francese sia tutto qui: esplora una stanza, trova l’elemento utile presente in quell’ambiante, procedi oltre. Il punto di forza però, almeno in teoria, dovrebbe risiedere nei vari problemi da risolvere, sempre molto articolati e complessi e che non faticheranno a mettere in difficoltà anche le menti più allenate. Questo, come detto, dovrebbe essere uno dei punti cardine del gioco, ma a causa di una traduzione distratta e poco precisa si rivelerà ben presto un clamoroso tallone d’Achille e un enorme fonte di frustrazione e scoramento per l’utente.


Ad esempio, uno dei primi rompicapi che vi verrà dato da risolvere riguarda un messaggio crittografato, codificabile, grazie alla parola chiave data, mediante l’utilizzo del complesso cifrario di Vigenère. Ora il sottoscritto ha passato delle ore nel tentativo di risolverlo, passando dal gioco direttamente alla pagine di Wikipedia fino ad alcuni siti di crittografia, per poi scoprire infine da un gaming forum che, per colpa appunto di una traduzione errata, l’enigma era impossibile da risolvere in quanto la chiava di decifrazione presente nel gioco è errata. E saranno proprio i forum di videogiochi il luogo dove passerete la maggior parte del vostro tempo di gioco, continuamente alla disperata ricerca di un modo per uscire dall’ennesimo intoppo o vicolo cieco nel quale immancabilmente incapperete. Infatti, oltre agli errori di traduzione, a mettervi i bastoni tra le ruote ci penserà anche un sistema di controllo largamente impreciso e afflitto da sporadici quanto imprevedibili bug, con Lea che spesso si “dimenticherà” semplicemente di esaminare determinati oggetti presenti in una stanza, portandovi di conseguenza più avanti a restare inspiegabilmente bloccati senza alcun indizio su come e dove procedere. Resta il plauso nel valutare il tentativo di rinnovare le avventure grafiche con qualcosa di nuovo, ma alla riprova dei fatti questo sistema di gioco basato su segnali luminosi e telecamere per far muovere la protagonista semplicemente non funziona, ed è aggravato ulteriormente dal letargico incedere di Lea, capace di impiegare interi minuti per operazioni semplicissime quali possono essere ad esempio il salire su una scala.

Una nave che affonda?


Tecnicamente parlando poi, Experience 112 è un gioco decisamente mediocre. Ambienti piuttosto scarni ospitano personaggi dal conteggio poligonale esiguo e animati in maniera assai rudimentale, con Lea a mancare della plasticità e della naturalezza tipici di un essere umano. Per fortuna però la buona direzione artistica copre in buona parte queste magagne, riuscendo grazie ad un ottimo design a rendere tutto sommato accettabile la cosmesi del titolo. Buono anche il comparto sonoro, capace di coinvolgere adeguatamente il giocatore, e apprezzabili anche i dialoghi parlati, anche se la mancanza del doppiaggio in italiano sicuramente si fa sentire, vista anche l’importanza che ha in un titolo simile il coinvolgimento emotivo del giocatore. Per quanto riguarda i requisiti tecnici, Experience 112 è un gioco piuttosto leggero che non dovrebbe faticare a girare anche su computer un po’ indietro con gli anni, rendendosi così facilmente accessibile ad una larga fascia d’utenza.

Commento finale

Experience 112 si è rivelato un titolo piuttosto controverso. Nonostante infatti i clamorosi problemi del sistema di controllo e i fastidiosissimi errori di traduzione, l’avventura dei programmatori francesi è anche in grado di affascinare e catturare l’utente, attirato come una calamita dall’enigmatica Lea e dagli oscuri misteri celati in EDEHN. A momenti di enorme e quasi incontenibile frustrazione se ne susseguono altri di pura magia, innescando un rapporto di amore ed odio dal quale è difficile uscire. Se dovessi dare un consiglio, direi di andarci con i piedi di piombo. Se siete armati di ferrea pazienza e pronti a sopportare una serie di problemi non proprio minori, allora forse riuscirete ad apprezzare una avventura grafica dalla grande originalità e dalla trama interessante. Altrimenti statene alla larga, perché la tentazione di voler usare il dvd come frisbee potrebbe palesarsi ben presto.