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domenica 28 dicembre 2008

[Cinema] Lissy - Principessa alla riscossa


Come consorte dell’erede della dinastia asburgica, per Lissy la vita non è altro che un susseguirsi di divertimenti e folli attività ricreative. In compagnia del suo amato Franz infatti, la bella principessa spende le sue giornate in maniera decisamente particolare, dal bruciare banconote per riscaldarsi all’improvvisare improbabili siparietti erotici per il suo adorato Frantz. Ma la pacchia è destinata a finire ben presto. Uno Yeti proveniente dall’Himalaya, costretto dal diavolo in persona a stringere con lui un criminoso patto, la rapirà per avere salva la vita, dando il via ad una rocambolesca caccia all’inseguitore e ad una serie di eventi che vedranno come protagonisti la sempre divertita Lissy e un’altra schiera di improbabili personaggi.

Partorita dalla mente di Michael Bully Herbig, ovvero l’ideatore di “Bullyparade”, storica trasmissione comica della televisione tedesca, Lissy (che nella versione italiana parla con la voce della sublime Lorella Cuccarini) non è altro che la reinterpretazione in chiave demenziale della figura storica di Sissi, amatissima imperatrice d’Austria e regina d’Ungheria. A differenza dell’originale però Lissy difetta sia d’eleganza che di classe, celando (ma neanche troppo) sotto il suo aspetto avvenente una personalità squinternata, svampita, eccessiva e qualche volta addirittura volgare. Accanto a lei ruotano personaggi della medesima risma, come l’imperatrice madre, sempre smaniosa di dare briglia sciolta alla sua libido, o il federmaresciallo, valletto di corte a metà tra il giullare e il masochista. Aggiungendo a questo delirante calderone anche lo Yeti, figuro contraddistinto da modi rozzi e dalla totale avversione a qualsiasi tipo di sentimento umano, quello che se ne ricaverà sarà una mistura che difficilmente non potrà far venire alla mente Shrek e la sua trilogia, dalla quale la pellicola tedesca sembra prendere più di qualche semplice spunto.

La parodia di svariati film (da Moulin Rouge a King Kong), la palese somiglianza di alcuni personaggi, la condivisione dei temi trattati: sono molti insomma i nodi che legano Lissy alla Fiona di casa DreamWorks. A differenziare il tutto però ci pensa il timbro e il tenore delle gag presenti: se nel film d’animazione americano il target principale era sempre e comunque quello dei più piccini, qui invece spesso e volentieri si susseguono sketch indirizzati palesemente ad un pubblico maggiorenne, ricordando nello stile e nella sostanza film come Una pallottola spuntata o i più recenti Scary Movie. Il problema è che qui, ancora di più che nei film appena citati, le gag sembrano susseguirsi in maniera assolutamente casuale, mal sorrette e concatenate da una trama lacunosa e mai ispirata, dando vita così ad un prodotto che corre il rischio di risultare tanto noioso agli adulti quanti incomprensibile per i più piccoli.

Non che Lissy – Principessa alla Riscossa non abbia i suoi momenti: alcune battute risulteranno sinceramente divertenti, e il livello dell’animazione, seppur lontano per motivi di budget dai colossi d’oltreoceano, è indubbiamente apprezzabile, ma in generale questa produzione tedesca pecca d’identità e originalità, risultando in una serie di collage di ritagli già visti e che mal si appaiano tra loro.

sabato 27 dicembre 2008

[Cinema] Ember - Il Mistero della Città di Luce


Nel cuore della terra, flebile brilla l’ultima speranza per il genere umano. In un futuro apocalittico ormai piuttosto consueto, l’uomo l’ha fatta di nuovo grossa: stravolta da guerre e distruzioni atomiche il pianeta è ormai giunto al collasso, tanto che l’unica carta rimasta all’umanità per preservare la propria esistenza è quella di creare una città sotterranea, Ember, e abitarla fino al giorno in cui la terrà sarà di nuovo a misura d’essere vivente. Ma molti, moltissimi anni sono passati, e il tempo ha portato via con se sia l’origine che lo scopo di Ember, tanto che ormai gli abitanti della città sono convinti che non esista nulla al di fuori di essa, unica luce in un mondo di tenebre ed oscurità. In mezzo a questo miscuglio di ignoranza, misticismo e cieca obbedienza però due bambini cercano la verità e, sovvertendo ogni legge e imposizione, troveranno infine una via per fuggire dal declino della città ormai morente.


Tratto dal romanzo di Jeanne DuPrau, Ember – Il Mistero della Citta’ di Luce è in parte uno specchio fedele di quegli spettri che agitarono i sogni della giovane scrittrice, nata in un’epoca in cui lo sviluppo sempre maggiore degli arsenali nucleari sembrava preannunciare un’apocalisse ormai imminente. Forte quindi sono temi quali la ricerca della salvezza attraverso la segregazione dal mondo esterno e anche dagli altri individui, ma anche l’impellente necessità di credere ad individui superiori e divini (si pensi ai costruttori) e l’obbedienza incondizionata verso un dittatore, guida e allo stesso tempo carceriere del proprio popolo. Il tutto viene trattato nel film di Gil Kenan però con una certa leggerezza che sfocia spesso e volentieri nella superficialità: la pellicola è difatti chiaramente indirizzata ad un pubblico giovanile, e ben presto le cupe premesse lasceranno spazio ad una sorta di caccia al tesoro dei due protagonisti, che tra oscuri indizi e improbabili marchingegni (ricordando in questo un classico come i “Goonies”) ricomporranno il puzzle che li condurrà alla meta finale. Purtroppo però, nel suo processo di semplificazione di trama e personaggi, a farne le spese sono stati attori del calibro di Tim Robbins, Martin Landau e Bill Murray, qui ridotti a scarne figure dallo spessore infinitesimale e dalla caratterizzazione addirittura macchiettista. L’unica eccezione forse è proprio nel disgustoso sindaco interpretato dal buon Murray, celluloide rimando di come avidità, corruzione e prevaricazione dell’interesse comune siano germi comuni quando si stringono tra le mani le redini del podere.


In questo quadro non sarà quindi una sorpresa constatare che, alla fine della fiera, il vero protagonista del film è Ember stessa: nella sua decadenza, nella sua architettura futuristica così melanconica e fatiscente, nel suo avvolgersi tra le coperte del suo pallido candore spinto da un generatore ormai morente, in tutto insomma questo risiede la vera anima del film, un’umanità in bilico tra un nuovo avvento e il giudizio universale eppure ancora intrappolata nei vizi e negli eccessi di sempre. Ma questo si svelerà solo davanti agli occhi di coloro che vorranno guardare con attenzione. Per tutti gli altri, Ember – Il Mistero della Città di Luce non sarà altro che uno dei tanti film di questo periodo festivo, una passatempo tanto piacevole quanto effimero e passeggero.

mercoledì 17 dicembre 2008

[360] The Last Remnant


Dopo un lungo e apparentemente interminabile periodo di assenza, Square Enix sembra ufficialmente uscita dalla penombra e, dopo il recente Infinite Undiscovery, torna a firmare un nuovo jprg ad esclusivo appannaggio (seppur temporale) dell’utenza X360. Sarà The Last Remnant l’inizio di un nuovo periodo d’oro per la software house nipponica o l’ennesima conferma che, dopo la dipartita di alcuni storiche figure chiave, in effetti un po’ dell’antica magia è andata smarrita per strada? Andiamo a scoprirlo.


Un caricamento lungo tutta una vita


Di solito non usiamo aprire le nostre recensioni disquisendo dell’aspetto tecnico dei giochi da noi esaminati, ma in questo caso ci è parso un passo dovuto e necessario visto i notevoli problemi riscontrati a riguardo e il grosso impatto che questi hanno sulla fruibilità del gioco da parte dell’utente. Inutile girarci troppo intorno: graficamente The Last Remnant è un mezzo disastro. Basteranno i primi minuti di gioco per rendersi conti di quanti e quali problemi questo titolo soffra, dall’estremo ritardo nella visualizzazione delle texture ad un frame rate claudicante fino all’ esorbitante numero di caricamenti presenti. E quest’ultimo in particolare, per quanto possa forse suonare strano, è un problema madornale. C’è qualcosa di vagamente perverso e snervante nell’entrare in una città, arrivare nella piazza principale, visitare la consueta taverna, uscire e tornare in piazza e poi ripassare alla world map e nel processo sorbirsi decine di schermate di loading, il tutto poi magari per parlare giusto un istante con un determinato personaggio. Si tratta di un problema in verità già riscontrato un produzioni analoghe (il pensiero va al Lost Odyssey di Mistwalker, anch’esso mosso dall’Unreal Engine 3) ma qui presente in maniera veramente eccessiva e assolutamente intollerabile per gli standard odierni. E a poco serve la possibilità di poter installare il gioco su hardisk, visto che questo non farà altro che ridurre in maniera minima i tempi di loading ma prendendosi in cambio ben sei giga di memoria, cifra eccessiva considerata la capienza normale dei dischi rigidi in dotazione per X360. Un peccato davvero, perché a livello di design il lavoro svolto è di primissima qualità, con personaggi e ambientazioni originali e curate nei minimi dettagli che finiscono però per essere seppelliti sotto una marea di bug grafici. A chiudere infine la valutazione non certo esaltante del lato audiovisivo del gioco abbiamo inoltre musiche piuttosto anonime, incapaci di suggestionare o emozionare a dovere, e un doppiaggio in inglese tanto enfatico da risultare involontariamente ridicolo e caricaturale, e l’impossibilità di poter scegliere l’originale in giapponese (opzione alla quale ormai ci eravamo abituati) non è che l’ultima di una serie di delusioni piuttosto cocenti.

L’unione fa la forza


Parlato di quelli che sono i molti problemi di The Last Remnant, ci sembra ora il caso di sottolineare quelli che sono indubbiamente alcuni punti forti, e tra questi spicca sicuramente il sistema di combattimento. Ultimo figlio di una lunga tradizione alla continua ricerca di un qualcosa di nuovo in grado di sovvertire i soliti stilemi del genere, il battle system gira tutto sulla gestioni delle così dette unioni, ovvero squadre composte da massimo cinque personaggi e in grado di operare come una singola unità. A differenza infatti di quanto accade di norma, in The Last Remnant impartiremo ordini non ad una serie di individui ma a piccole truppe, ognuna configurabile a piacimento dal giocatore, che potrà scegliere quali formazioni adottare, da quelle più offensive ad alcune più caute, e che tipo di unità avere, selezionando di volta in volta i membri maggiormente adatti alle proprie necessità. Inoltre un ruolo fondamentale lo giocherà anche la posizione sul campo di battaglia: caricare a testa bassa un gruppo di nemici infatti potrebbe esporci ad attacchi laterali dalle adiacenti truppe nemiche, ma allo stesso tempo magari offrire ai nostri compagni l’opportunità di eseguire una devastante imboscata alle loro spalle. E’ decisamente marcata l’impronta strategica data dai programmatori al gioco, ed è di conseguenza un peccato che questa non venga fuori prima di svariate ore, costringendo all’inizio il giocatore ad una serie di semplicissime battaglie che potrebbero fuorviare e dissuadere dall’andare oltre i meno pazienti, e che facendo il paio con la mediocre realizzazione tecnica rendono The Last Remnant un gioco dall’approccio assai ostico e conflittuale.

Uno strategico mancato


Ultima in questa sorta di recensione sottosopra, la trama dell’ultima fatica Square Enix non si discosta più di tanto dalle solite tematiche e dagli immancabili clichè che ormai abbiamo imparato a conoscere in anni ed anni di esperienza, offrendo però di contro qualche spunto abbastanza interessante. Nei panni del giovane Rush Skyes, le prima battute del gioco ci vedranno alla ricerca della nostra amata sorellina rapita da un oscuro figuro a bordo di un Remnant, arcani artefatti dotati di immenso potere capaci di alterare e governare la vita di interi popoli. Ovviamente ben presto il focus si sposterà proprio sui Remnant e sul loro controllo, e con esso avrà il via l’immancabile lotta per scongiurare il dominio del mondo da parte del cattivone di turno. Peccato però che la progressione nella trama avvenga mediante una fase esplorativa ridotta ai minimi termini, con le città vivisezionate in spartani hub atti solo all’arruolamento e all’equipaggiamento di nuove truppe e dungeon decisamente lineari, nei quali una semplice mappa, reperibile di norma all’entrata. ci indicherà ogni volta senza alcuna possibilità di errore la via da seguire. Quello che resta da fare quindi al giocatore è semplicemente esplorare le zone alla ricerca dei nemici, tanto che non sembra azzardata l’idea, visto anche la natura della world map (non esplorabile in alcun modo) e la grossa enfasi posta sul combattimento, che Last Remnant sia quasi una sorta di strategico mancato, al quale non si sa bene per quale ragione sia stato poi aggiunto una fase esplorativa assolutamente fiacca e dimenticabile, aspetto questo ulteriormente enfatizzato dalle varie missioni secondarie disponibili nel corso dell’avventura. Un vero controsenso.

Commento finale

The Last Remnant è indubbiamente un gioco bizzarro. Afflitto da enormi problemi tecnici e da una struttura di gioco non sempre coerente, l’ultima creatura Square Enix probabilmente metterà in fuga molti di quelli che non riusciranno ad andare oltre le prime, traumatiche, ore di esperienza. I più eroici invece, una volta superato lo scoglio iniziale, si troveranno alla prese con un jrpg dotato di un sistema di combattimento stimolante e dalla forte componente strategica, oltre che con una trama capace di catturare l’attenzione per trenta e più ore. Certo i problemi restano, e a quelli tecnici man mano si affiancano anche alcune scelte di design difficilmente condivisibili che rendono ancora più palese, semmai ce ne fosse bisogno, come ormai il genere soffra di una crisi di identità dalla quale ancora stenta a tirarsi fuori.


giovedì 4 dicembre 2008

[360] Shaun White Snowboarding


Quella dei giochi dedicati allo snowboard è un’onda lunga che viene da lontano. Il primo titolo ad imporsi al grande pubblico fu probabilmente il Cool Boarders targato UEP System, che nel 1996 approdò sulla primo genita Sony e riscosse un successo tale da dare il via, di lì a poco, ad una serie di vari seguiti uno più fortunato dell’altro. Più recentemente poi, l’Amped di casa Microsoft ma soprattutto l’esplosivo SSX targato EA hanno definitivamente affermato il genere come uno dei più apprezzati dal grande pubblico in ambito sportivo, e di conseguenza sarebbe stato logico aspettarsi, con l’avvento dell’attuale next-gen, un ennesimo proliferare di titoli con protagonisti una montagna scoscesa e folli a bordo di tavole pronti sfidarsi all’ultimo trick. E invece nulla. Per qualche ragione a noi ignota niente di tutto questo è accaduto, e lo snowboard è improvvisamente sparito dalle nostre console. Almeno fino ad oggi. Con Shan White Snowboarding infatti Ubisoft monta sulla seggiovia e punta diretta alla cima più alta, con tutta l’intenzione di imporsi, in un campo sgombero da rivali, come l’unica alternativa possibile per gli amanti del genere. Ma sarà una prestazione da medaglia d’oro, o il team canadese incapperà in una rovinosa caduta?

Se la montagna non va da Maometto…prendi la seggiovia


La prima cosa che si nota subito del titolo Ubisoft Montreal è la sua impostazione di base totalmente difforme dalla norma. Se infatti i titoli del genere ci avevano abituato a discese secche contro avversari o con l’obiettivo di eseguire il maggior numero di trick, o con quelli di tagliare per prima il traguardo, qui i programmatori hanno optato per un approccio ormai in voga un po’ ovunque, ovvero l’immancabile free roaming. Eccoci quindi con a disposizione un’intera montagna (anzi in realtà ben quattro, poste rispettivamente in Europa, Alaska, Utah e Giappone) liberamente esplorabile dal giocatore, che potrà così usufruire di varie seggiovie o di un comodo passaggio in elicottero per raggiungere la cima, con addirittura l’opzione di slacciarsi lo snowboard e lanciarsi in un improbabile e faticosissima camminata. Ed è questa una caratteristica da non trascurare, perché grande risalto è stato posto proprio sull’esplorazione da parte del giocatore di questi enormi parchi giochi innevati, con le montagne così a celare numerose discese, velocissimi tratti ghiacciati e spericolati fuori pista dove non saranno rare folli discese nel disperato tentativo di non farsi inghiottire dall’arrembante valanga alle nostre spalle. Seconda caratteristica peculiare di Shaun White Snowboarding è poi la completa integrazione della componente multiplayer nell’esperienza per singolo giocatore: ricalcando in questo modo quanto visto già in Burnout Paradise, sarà possibile da un momento all’altro passare dalla discesa solitaria a quella di gruppo semplicemente sostando in determinati punti di interesse e sfidarsi immediatamente, grazie ad un sistema di match making piuttosto rapido, in competizioni con amici e avversari provenienti da ogni parte del globo.

Anche la libertà ha il suo prezzo


Se quindi sulla carta l’impostazione del gioco parrebbe indubbiamente vincente, al riscontro dei fatti ben presto i primi nodi verranno a palesarsi. Il primo, grande elemento di rammarico è la scarsa quantità e diversificazione delle competizioni proposte dal titolo Ubisoft, limitate a classiche gare di velocità, half pipe e gare di trick nel contesto di snow park e strutture simili. Nonostante infatti la notevole ampiezza delle discese innevate, le gare saranno sempre presenti in numero piuttosto esiguo, e quando scoprirete che buona parte di esse saranno riservate esclusivamente alla modalità multiplayer, un primo e fastidioso moto di sconforto comincerà a manifestarsi anche nel più inguaribile degli ottimisti. Il team canadese sembrerebbe di fatto aver puntato più sull’invogliare il giocatore ad esplorare l’ambiente intorno a se (come palesato dalle varie monete da raccogliere sparse per tutta la distesa innevata), quasi a voler riprodurre il vero spirito celato dietro un gruppo di amici snowboarder che si appresta a vivere la montagna in compagnia: un intento indubbiamente originale ed interessante, ma che sembra non funzionare a dovere quando in realtà si è seduti in tutta comodità davanti ad un televisore. Altro elemento di forte perplessità è il sistema di controllo: a metà tra un approccio realistico e uno più user friendly, Shaun White Snowboarding rifiuta gli eccessi di tecnicismo di un Amped ma si tiene anche lontano dalle adrenaliniche vette di iper realtà toccate da un SSX, scegliendo una via di mezzo che non convince in quanto accomuna semplicità ad una scarsezza di abilità e trick eseguibili piuttosto castrante. E’ proprio nella ricerca di un’identità che il titolo si smarrisce. Privo delle potenti dosi di adrenalina dei titoli più spericolati e sviscerato di qualsiasi voglia tecnicismo, il titolo Ubisoft presenta discese accomodanti, facili, innocue, una simpatica scampagnata invernale a bordo di docili e mansueti snowboard, sviscerando questo sport di buona parte delle sue qualità più accattivanti.

Sono Altair, ed esigo subito una tavola

Le ultime parole vogliamo infine spenderle sul lato tecnico del gioco. Dal punto di vista sonoro, nonostante un non proprio eccelso doppiaggio in italiano, Shaun White Snowboarding può farsi forte di una colonna sonora di assoluto livello, con artisti del calibro di Audioslave, Incubus e Bob Dylan, offrendo un ottima selezione di brani rock, indie e punk. Meno convincente purtroppo il reparto grafico. Nonostante l’ottima realizzazione del manto innevato e in generale del feeling di stare veramente scendendo sul bianco dorso di una montagna, per il resto il gioco presenta una cura del dettaglio davvero minima, con edifici ed elementi di contorno mal realizzati o addirittura appena abbozzati che stridono e sviliscono fortemente tutta l’impostazione free roaming alla base del gioco. Pollice verso anche per la realizzazione dei modelli poligonali, davvero grezzi e mal animati, elemento questo decisamente sorprendente visto che il motore grafico in questione è quello che al tempo mosse quella meraviglia di Assassin’s Creed. Se a tutto questo si aggiunge una fluidità non proprio eccelsa, incapace di restituire come dovrebbe la sensazione di velocità derivante dal lanciarsi a folle velocità dalla vette di una montagna, sarà chiaro che il quadro che ne esce non è certo dei più rosei.

Commento finale

Gettandosi in un’arena al momento priva di rivali, l’intenzione di Ubisoft era di proporsi, con il suo Shaun White Snowboarding, come l’unica alternativa possibile per i fan di questo spettacolare sport. Peccato che, a fronte di alcune idee sicuramente positive, il gioco soffra di diversi e non trascurabili difetti, che vanno da un sistema di controllo eccessivamente semplicistico e limitato ad una realizzazione tecnica decisamente non al passo con i tempi. Ma quello che più manca al titolo canadese è l’identità: a metà tra l’arcade e la simulazione, Shaun White Snowboarding tentenna tra le due opzioni restando infine nel mezzo, col risultato di scontentare sia i giocatori alla ricerca di un titolo frenetico e adrenalinico e sia quelli alla ricerca di una sterminata lista di trick e acrobazie da imparare a memoria. Un’occasione sprecata.

martedì 2 dicembre 2008

[Cinema] Torno a vivere da solo


Quanto ci piace il panettone? Non ne abbiamo la più pallida idea, e non sarà certo in questa sede che andremo a scogliere il metafisico nodo che tormenta da tempo “l’intelligentia” italica, impegnata a discutere di questo in comodi salotti al suon di vespa. Quello che è certo è che al pubblico nostrano il cine-pannettone piace, e anche parecchio. In primis fu la vincente accoppiata De Sica/Boldi. Poi divenne la rivalità Boldi/De Sica. Poi ancora all’acceso agone, direttamente dalle appendici del Vesuvio, si aggiunse la verace e contagiosa comicità di Vincenzo Salemme. Ma evidentemente questo è un mercato che fa gola eccome, e quest’anno ai soliti volti se ne aggiunge un altro, quello del redivivo e rubicondo Jerry Calà il quale, dopo aver battuto un colpo con Vita Smeralda, ritorna anch’egli sulla scena cinematografica con una nuova pellicola. Libidine?


Tono a vivere da solo è il sequel diretto della commedia datata 1982 e firmata da Marco Risi (figlio del grande Dino), quel Vado a vivere da solo che consacrò definitivamente al grande pubblico l’allora nastro nascente Jerry Calà. Ora, ventisei anni dopo, Giacomino è un affermato professionista ma al contempo un poco stimato capo famiglia, ignorato bellamente dai figli e mal sopportato dalla moglie, con la quale inoltre si è anche affievolita la verve amorosa. Raggiunto infine il limite, Giacomino decide appunto di tornare a vivere da solo, riassestando con l’aiuto del collega e amico Enzo Iachetti il suo ex-appartamento e finendo per venire invischiato in una improbabile serie di fallimentari avventure amorose, tradimenti, crisi parentali (simpatica la presenza di Paolo Villaggio) e figli immancabilmente feriti dall’irresponsabilità e immaturità dei propri genitori.


La regola di un buon critico dovrebbe essere quella di non partire mai prevenuti. Ma a volte prevenire è meglio che curare, e se lo dice persino la tv un fondo di verità ci sarà pure. Jerry Calà riemerge nuovamente dagli abissi degli anni ’80 ma restandone ancora una volta però ferocemente aggrappato, imprigionato in una sorta di limbo spazio-temporale dove tutti si ripete in continuazione e nulla cambia mai. Ritornano quindi le gag a base sessuale, quelle sui gay, sulle droghe leggere, sugli appetiti delle consorti del’est Europa (qui rappresentate dalle ipnotizzanti misure di Eva Henger), il tutto mescolato e accompagnato dall’immancabile dance music fatta con la pianola bontempi, genere ballato al giorno d’oggi forse giusto da sparuti gruppi di vampiri in occulte cripte sotterranee. Non manca persino il cameo della star d’oltre oceano, l’imbolsito Don Johnson di Miami Vice, qui doppiato con un accento alla cotoletta che non mancherà di far scorrere lungo la schiena dello spettatore brividi di puro terrore.

E’ tutto maledettamente, tremendamente trash, e non è facile dire quanto questo sia voluto o meno. Quello che però è palese è che, tolta qualche buona battuta dell’intramontabile Villaggio, si ride davvero poco o nulla, restando per la maggior parte della durata del film con la bocca in una sorta di sospesa paralisi, spalancata a metà tra la noia e lo sbigottimento. Insomma una volta era addirittura doppia libidine. Oggi si fatica ad intravederne una metà.

mercoledì 26 novembre 2008

[Cinema] Never Back Down


Jake Tyler (Sean Faris) non riesce proprio a fare a meno di cacciarsi in delle risse. Filmato su un campo da football dell’Iowa mentre le suonava di santa ragione a degli avversari, Jake arriva così nel suo nuovo liceo ad Orlando con la fama di gran picchiatore, suscitando immediatamente l’interesse dell’immancabile bullo della situazione, tal Ryan McCarthy (Cam Gigandet), il quale tramite l’inganno riuscirà a sfidare e a sconfiggere sonoramente il nostro eroe in un incontro di MMA, ovvero Mixed Martial Arts. Ferito nell’orgoglio e non solo, Jake si affiderà alla carismatica figura del maestro Jean Roqua (il due volte candidato all’Oscar Djimon Hounsou) non soltanto per apprendere tutti i segreti delle MMA e porre fine al regno di terrore di Ryan, ma anche e soprattutto per confrontare e infine domare i suoi demoni interiori, scatenati quest’ultimi dalla recente morte del padre, evento di cui Jake si sente in buona parte responsabile responsabile.


Never Back Down è la non diretta riproposizione in salsa moderna di un grande classico del passato, il Karate Kid di Avildsen, dal quale la pellicola di Jeff Wadlow prende quasi tutta la sua ossatura principale, condita in più da una serie di clichè comuni ad una pletora sterminata di action movie. Ce n’è veramente per tutti i gusti: dalla ragazza bella e intelligente suo malgrado costretta a stare col bullo della scuola per essere accettata (Amber Head) alla mascotte Evan Peters, spalla comica di Jake e vittima designata per le angherie dell’incompreso Ryan, quest’ultimo così cattivo e violento perché cresciuto da un padre fondamentalmente imbecille e insensibile. In tutta questa serie di figure viste e riviste brilla Djimon Hounsou, che pur rivestendo panni assai canonici anch’essi, riesce con la sua interpretazione a dare una buona profondità al suo personaggio, la cui storia passata offre spunti di seria riflessione sugli immancabili mali derivanti dall’uso della violenza.


Ed è un peccato dunque che nel resto del film sia continuamente riproposta invece questa versione patinata e seducente dello scontro fisico, di una violenza non soltanto priva di reali conseguenze fisiche (i personaggi del film guariscono da terrificanti scazzottate in men che non si dica) ma persino veicolo di accettazione e promozione sociale, come testimoniano gli sguardi lascivi rivolti verso Jake dalle sue coetanee all’alba dell’ennesima sua rissa finita in rete. Non vorremmo aver preso una clamorosa cantonata, eppure in determinati frangenti ci è apparso quasi di assistere ad un inno al bullismo, o comunque ad un’eccessiva celebrazione dello scontro e della supremazia fisica, messaggi entrambi decisamente ambigui e persino pericolosi visto la fascia di pubblico alla quale il film è chiaramente rivolto. Ed è ancora più paradossale il tutto considerando poi che, in fin dei conti, le scene di combattimento non sono né estremamente frequenti e né particolarmente spettacolari, impallidendo letteralmente se paragonati agli standard imposti recentemente dai cineasti e dalla filmografia orientale.


Insomma Never Back Down non ha di certo entusiasmato il sottoscritto. Ancorato a meccaniche e stereotipi ormai vecchi di decenni, il film di Jeff Wadlow ci propone un modo davvero poco credibile nel quale adolescenti ricchi e belli si pestano, senza alcuna conseguenza, alla ricerca chi della fama, chi di un ennesimo video da mandare su Youtube. Non proprio il massimo della vita.

venerdì 21 novembre 2008

[Cinema] Awake - Anestesia cosciente


Clayton (Hayden Christensen) sembrerebbe avere tutto quello che si può desiderare dalla vita: un fisico longilineo e lineamenti da modello, un conto in banca ammontate a svariati milioni di dollari e come ragazza niente meno che Jessica Alba, qui nei panni dell’adorabile e sensuale Sam. Purtroppo però il buon Clayton si ritrova con un cuore di cartone, instabile e malmesso quanto un tavolino comprato all’Ikea e montato senza istruzioni, ed è così costretto a ricorrere ad un trapianto, affidandosi alle mani del suo fidato amico Terrence Howard, medico la cui abilità è ampiamente testimoniata dalla svariate denunce per malasanità a suo carico. E’ sarà proprio una volta disteso sul letto operatorio che Clayton, complice un’anestesia non proprio ottimale, comincerà il suo viaggio a metà tra l’onirico e l’extra corporeo, rivelando suo malgrado oscure verità e sordidi inganni in un tourbillon di colpi di scena che metteranno sotto sopra il suo intero universo.


Awake – Anestesia Cosciente è una pellicola sospesa tra il thriller psicologico e il metafisico con frequenti digressioni nel dramma familiare, incapace però in tutto questo di trovare un suo centro di gravità intorno al quale far ruotare coerentemente tutti i suoi eventi. Non mancheranno certo i colpi di scena, anzi il film di Joby Harold sarà in grado di cogliere di sprovvista anche gli spettatori più smaliziati con alcune rivelazioni davvero inaspettate ma che non bastano dal canto loro a sopperire ad una narrazione sconfinante il più volte nel reame dell’illogico, disperatamente appigliata all’intervento risolutorio di un immancabile deus ex machina. Tra gli interpreti ottima la performance di Terren Howard, ormai una sicurezza, al quale fa da contraltare la prevedibile prestazione monocromatica del duo da copertina patinata Christensen/Alba, talmente minuscola in questo caso da far guadagnare ai due la nomination per i Razzie Awards, ovvero l’Oscar dei peggiori.


Non è proprio interamente da buttare l’esordio registico di Joby Harold, anche se poco ci manca. Il giovane scrittore inglese ha dato indubbiamente prova di una buona originalità di fondo, rovinata però da una realizzazione e un’esecuzione ben lontani dalla sufficienza. Andrà meglio la prossima

lunedì 10 novembre 2008

[360] Fable II



“Da bambini, durante i lunghi inverni di Bowerstone, io e mia sorella eravamo soliti guardare per ore l’imponente e maestoso profilo di Castel Fairfax, che dall’alto troneggiava su tutta la città come un benevolo sovrano. Era meraviglioso. Al tempo ci sembrava che ci bastasse osservare per un po’ la fioca luce che si intravedeva danzare dalle antiche vetrate per sentirci avvolti in un caloroso abbraccio e in un attimo, d’improvviso, sparivano freddo e fame, e non eravamo più due poveri orfanelli ma i felici figli del Conte. Non desideravamo altro che poter vivere anche noi tra le mura di quel fantastico castello, ma non sapevamo a cosa il nostro desiderio ci avrebbe condotto…
Sono passati molti inverni da allora. Mia sorella non c’è più, uccisa per via dello stesso sangue che ora scorre nelle mie vene, il sangue degli Eroi, ed è su di esso che ho giurato di vendicarla, di far pagare a Lucien il prezzo di tutte le sue malefatte e di portare finalmente la pace tra le terre di Albion. Ma le cose non sono mai così semplici come appaiono. Mi trovo a gestire un potere enorme, la gente mi insegue per strada implorando d’aiutarla, altri mi adorano e infine taluni mi temono, scappando terrorizzati al mio passaggio; dalla mie scelte derivano conseguenze che neanche io so prevedere con certezza e spesso, guardandomi allo specchio, non riesco a capire se quello che vedo riflesso sia un angelo oppure un demone. Da fanciullo ero convinto che non ci fosse niente di meglio di una fiaba. Ma era ben diverso ascoltare quelle storie fantastiche dal viverle in prima persona. E quella che sto ora scrivendo io con le mie gesta, di questo son sicuro, di certo non è una fiaba adatta ai bambini.”

Estratto del Diaro di un Anonimo Eroe


Il mondo nel pugno della mia mano


Dopo quattro anni Peter Molyneux ci riprova. Sebbene il primo Fable fosse indubbiamente un buon gioco, l’opera di Lionhead Studios fu schiacciata dall’enorme hype montato nel corso del tempo e da tutta una serie di promesse che infine non furono mantenute. Ora con questo seguito i programmatori, pur avendo mantenuto un profilo decisamente più basso in fase di promozione, non hanno certo fatto mistero di voler rimediare a tutte le mancanze che affliggevano il capostipite della serie, realizzando in tutto e per tutto un gioco che riuscisse a contenere tutti gli elementi caratterizzanti l’originale visione. E, almeno per buona parte, si può dire che ci siano riusciti. Una volta infatti conclusa la fugace fase dell’infanzia (poco più che un breve tutorial atto ad introdurre alcune funzioni base del gioco), il primo approccio che si ha con Fable II è decisamente disorientante, e questo lo si deve al fatto che, davanti ai nostri occhi, si apriranno ben presto un mare di possibili scelte e di vie da seguire. Fermi ad ammirare il via vai di passanti nel centro della piazza del mercato di Bowerstone, potremmo così decidere di far qualche soldo lavorando presso il vicino fabbro (o di rubare dalla cassa del vicino fabbro!), di spaccare la legna o di servire alcol agli avvinazzati e poi investire il guadagnato in case o nella compera di negozi, cercando pian piano di costruire un personale impero economico. E ancora, i più malvagi tra voi potranno trovare pane per i loro denti nel lavorare come freddo assassino o nel rivendere persone innocenti come schiavi, mentre per i più romantici ci sarà la possibilità di far innamorare una ragazza (o anche un ragazzo) e di avere con loro una famiglia e anche dei figli.
Perché la particolarità di Fable II non risiede tanto nella nutrita schiera di side quest presenti ma nel semplice e allo stesso tempo appagante sistema di relazioni esistente tra noi e i vari npc che popolano le lande di Albion. Potenziando e amplificando notevolmente infatti quanto già sperimentato col primo episodio, il giocatore sarà così in grado di rivolgersi agli altri mediante tutta una serie di espressioni, che vanno dall’apprezzamento allo scherno fino a bizzarre opzioni come il chiedere l’elemosina o il fingersi morto, creando così di fatto una possibilità di interagire con la popolazione unica nel suo genere, ricordando sotto questo punto di vista prodotti decisamente differenti come ad esempio The Sims. Quello che ne deriva è un mondo che, forse per la prima volta in un rpg, sembra davvero godere di vita propria e allo stesso tempo reagire attivamente alla nostra presenza, con la gente a commentare ogni nostra impresa eroica o malefatta, a deriderci se sovrappeso o ad adorarci incondizionatamente qual’ora in forma e vestiti di tutto punto. Le opzioni e le situazioni nelle quali si può incappare in Fable II sono davvero infinite e non basterebbe il più lungo dei papiri per descriverle tutte, ma basti dire che, nonostante la sua semplicità, non sarà raro voler incominciare una nuova partita spinti dalla classica domanda “e se mi fossi comportato in maniera diversa?".

Una fiaba adatta a tutti..forse anche troppo

La semplicità è una caratteristica che contraddistingue anche il sistema di combattimento e lo sviluppo delle abilità del proprio eroe. Con tre tasti adibiti rispettivamente ad attacchi all’arma bianca, colpi ranged e incantesimi, il combattimento in Fable II risulta essere estremamente intuitivo e scorrevole mantenendo al contempo un minimo di profondità, come sottolineato da mosse più avanzate come la possibilità di eseguire combo o di contrattaccare gli attacchi nemici premendo il tasto al momento giusto. Anche la gestione del nostro alter ego risulterà estremamente semplificata: l’equipaggiamento infatti consisterà solo in armi da mischia e ranged, con gli indumenti a rivestire un mero ruolo estetico (scelta questa spiegata dal non voler costringere il giocatore a indossare una determinata armatura per riceverne dei bonus in combattimento), mentre la crescita dell’eroe sarà affidata a tre statistiche basi incrementabili mediante l’esperienza raccolta dall’abbattimento dei nemici. Tutto insomma è stato fatto affinchè il gioco risultasse il più possibile accessibile ad una grande e difforme fascia di pubblico, e nonostante il pregevole intento questo ha comportato qualche effetto collaterale, riscontrabile in particolare nel livello di sfida, davvero molto basso, e in una certa penuria di armi ed incantesimi, elementi questi che potrebbero far storcere un po’ la bocca a qualche giocatore più smaliziato. Altri elementi davvero poco convincenti sono la durata e la qualità narrativa della quest principale (che in particolare soffre nel finale del così detto “effetto Halo 2”, e qui chi ha giocato il titolo Bungie capirà bene) e tutta una serie di piccoli bug sfuggiti in fase di testing che, in alcuni casi, potrebbero rivelarsi davvero fastidiosi. Inoltre, nonostante l’aggiunta del cane sia una presenza deliziosa e l’animaletto reagisca in maniera veramente sorprendente alle nostre azioni, mi sarei aspettato onestamente qualcosa di più da questo aggiunta tanto enfatizzata da Molyneux nei mesi antecedenti all’uscita del gioco visto che, a conti fatti, il nostro fidato segugio si limiterà per la maggior parte del tempo a fungere da semplice strumento per il rinvenimento di tesori e beni sotterrati e ad abbaiare in presenza di nemici.


Ma quanto parli!?

Tecnicamente infine Fable II, nonostante non sia mostro pulsante di poligoni ed effetti a tutto spiano, riesce comunque ad incantare l’occhio del giocatore grazie ad una direzione artistica deliziosa e ad una gestione in tempo reale dell’illuminazione e del ciclo giorno/notte semplicemente magnifica, regalando senza ombra di dubbio i più bei tramonti e le più incantevoli albe mai viste fin’ora in un videogioco. Molta cura è stata poi riposta negli incantesimi, davvero convincenti, mentre fa un po’ storcere il naso l’esiguo numero di skin usate per gli npc e una certa legnosità in alcune animazioni, specie quelle concernenti il combattimento all’arma bianca. Vero tallone d’achille del comparto tecnico sono però i caricamenti presenti all’ingresso di ogni zona, apparsi decisamente lunghi e in alcuni casi persino ingiustificati, specie durante le fasi concernenti lo sviluppo della trama. Assolutamente sbalorditivo è invece il comparto sonoro, dove a musiche d’atmosfera fa il paio un doppiaggio italiano mastodontico per qualità ma soprattutto per quantità del registrato, tanto che dopo oltre trenta ore spese nelle terre di Albion ancora adesso ci capita di ancora di trovarci sorpresi di fronte ad un esclamazione inedita o una frase mai sentita prima. Inoltre, qual’ora ci fosse qualche convinto anglofono tra di voi, online è possibile scaricare gratuitamente l’intero parlato in lingua originale. Chapeaux!

Conclusione

Si può dire che Fable II abbia centrato in pieno il suo obbiettivo. Inserendo tutte le caratteristiche assenti al tempo nel suo progenitore, il titolo Lionhead Studios ci cala questa volta in tutto e per tutto nei panni di un eroe, liberi di scegliere il nostro cammino e di influenzare come meglio ci aggrada il mondo circostante. L’estrema accessibilità del titolo consentirà anche ai non avvezzi al genere di divertisti senza alcun problema, mentre i gamer più “hardcore” avranno pane per i loro denti nel testare affondo ogni possibilità offerta dal gioco e nella ricerca di tutti i segreti e armi leggendarie presenti. Certo qualche difetto resta, con in particolare la quest principale a dimostrarsi davvero deboluccia sotto ogni punto di vista.

mercoledì 5 novembre 2008

[Cinema] Death Race


C’era una volta, nel lontano 1975, Anno 2000-La corsa della morte. A metà tra un episodio di Wacky Races e una partitina a Carmageddon, la pellicola diretta da Paul Barter era un bizzarro quanto riuscito episodio di sfrontata satira politica e sociale, nel quale veniva dipinta un’America governata con pugno di ferro da un ottuso dittatore e il cui sport nazionale consisteva in queste folli gare dove per far punti i piloti dovevano asfaltare con i loro bolidi il più gran numero possibile di avversari e pedoni, con bambini ed anziani a conferire ulteriori bonus (mega jackpot per le donne incinte). Humor nero, improbabili ribelli anti-governativi, insensati risvolti romantici e un Sylvester Stallone nei panni del pacchianissmo e rozzissimo Joe “Machine Gun” Viterbo. Questo era il gioiellino trash di Paul Barter.


Oggi invece, che gli anni 2000 son arrivati eccome e i remake sembrano spuntare copiosi quanto i capelli sulla testa del nostro premier, Paul Anderson ha pensato bene di riprendere in mano il materiale originale, epurarlo di un qualsiasi valore e messaggio potesse essere in esso contenuto e trasformarlo in un film alla Anderson, ovvero una pellicola nella quale ad esplosioni, scazzottate e sbudellamenti seguono ovviamente altre esplosioni, scazzottate e sbudellamenti. Così ecco Frankenstein reincarnarsi nel monolitico e imperturbabile mascellone di Jason Statham (The Transporter, The Bank Job), qui nei panni di un ex-pilota ex-operario incriminato e incarcerato per aver ucciso la propria moglie e costretto a gareggiare nella Death Race sotto promessa da parte della direttrice del carcere (una glaciale Joan Allen) di farlo uscire nel caso di vittoria. Eccoci quindi a bordo di mostruosi bolidi armati di mitra, scudi e altre diavolerie azionabili passando su particolari pedane (esattamente come in Wipeout o videogiochi simili) mentre un messicano finisce in tanti coriandoli e uno spietato killer ucraino si dimostra antipatico proprio come ci era parso nelle prime battute e colossali esplosioni e fragorosi incidenti sono intramezzati dalle immancabili battutine del caso.


Il cocktail insomma è sempre quello tanto amato da Anderson e riconducibile a tre basici elementi, ovvero azione, violenza e un’infornata di belle figliuole (tra le quali spicca la destabilizzante Natalie Martinez). L’unica differenza rispetto alle sue precedenti opere però e che, incredibilmente, qui il tutto funziona piuttosto. Perché nonostante la trama risibile e dei personaggi paragonabili a caricature di altre caricature rifacentesi a stereotipi ormai giurassici, DEATH RACE ha dalla sua una brutalità visiva assolutamente appagante e un ritmo in grado di mantenere alti i giri del motore per tutta la durata della pellicola, risultando a conto fatti in un action movie tanto rozzo quanto godibile. Promosso.

martedì 23 settembre 2008

[Cinema] La Mummia - La tomba dell'Imperatore Dragone


Dopo una vita passata all’insegna dell’avventura e del pericolo, per la scombinata coppia di avventurieri/archeologi Rick O’ Connel (Brendan Fraser) e consorte Evelyn (qui interpretata dalla new entry Maria Bello, che sostituisce così la dimissionaria Rachel Weisz) è giunto il momento del meritato riposo. Tra il club di lettura e la pesca fluviale le occasioni per annoiarsi non mancano certo ai nostri due ex-eroi, con le giornate a susseguirsi così all’insegna della noia più opprimente e nel ricordo dei bei tempi andati. Ma non temente, in magazzino qualche mummia era ancora rimasta e a riportarla alla luce questa volta sarà Alex (Luke Ford), unico figlio della nostra simpatica coppia e anch’egli archeologo dotato di scarsissimo senso del pericolo, che con l’aiuto della sua famiglia dovrà così fronteggiare il temibile Imperatore Dragone (Jet Lì) e la sua immancabile armata di morti viventi.


Al ritorno dopo sette anni di silenzio, questo terzo episodio della mummia cambia parecchie delle carte in tavola lasciando però intatte le regole del gioco. Nel palese tentativo di conquistare infatti il mercato orientale si è pertanto optato per un cambio d’ambientazione, passando all’antico Egitto ai misteri dell’esotica Cina, assoldando al contempo tutta una seria di volti noti della cinematografia orientale tra i quali spicca la Micelle Yeoh di La tigre e il dragone. Inoltre la nuova regia di Rob Cohen (Fast and Furious, XXX) ha indubbiamente fatto salire i giri del motore della pellicola, che per il resto però non riesce a distaccarsi da un canovaccio già visto e rivisto, dove il colpo di scena o l’ennesima battaglia campale sono sempre accompagnati da un sordo sbadiglio. In soccorso di una sceneggiatura incisa a caratteri cubitali sul sacro monolite della banalità giungono però le meraviglie della computer grafica che, come già accadeva nei precedenti episodi, catturano lo spettatore con creature fantastiche mirabilmente animate e una caterva di esplosioni ed effetti speciali in grado così di colorare di tinte forti uno spartito altrimenti assai opaco. Oltre a questo tornano anche la comicità e la voglia di non prendersi mai sul serio caratterizzanti dell’intera serie, che facendo così un po’ il verso all’”Indiana” di Spielberg donano alla pellicola una sorta di salutare leggerezza, con il buon Fraser in particolare strapparci in più di qualche occasione un genuino sorriso.


La Mummia – La Tomba dell’Imperatore Dragone è, nel bene e nel male, la naturale continuazione dei due episodi precedenti. A fronte di un intreccio narrativo ormai trito e ritrito (e con l’aggravante della mancata presenza della deliziosa Rachel Weis), il film di Rob Cohen gonfia il petto esibendo azione non stop e effetti pirotecnici di primissima categoria. Se quindi quello che cercate è un’avventura spericolata infarcita di stranezze, mostruosità e una vena di ironia, allora armatevi pure di popcorn e bibita ed entrate fiduciosi in sala. Per tutti gli altri il consiglio è di passare la mano.

martedì 16 settembre 2008

[Cinema] The Rocker


Robert Fishman (Rainn Wilson), per gli amici semplicemente “Fish”, è un uomo che vive di rimpianti. Negli anni ’80 era l’estroso batterista di una hair band dal grande futuro, ma fu estromesso dalla formazione per fare posto al figlio del discografico proprio un attimo prima di varcare la soglia del successo. Il Fish di oggi è di conseguenza un ultraquarantenne infelice e frustrato, divorato dal rancore per i suoi ex-compagni, ora star di fama mondiale, che passa da un lavoro saltuario all’altro senza soluzione di continuità nel tentativo di dare un senso alla sua vita. Ma alcune volte il treno per il successo passa due volte, e il nostro batterista riuscirà a staccare un biglietto valido per l’olimpo della musica grazie all’improbabile gruppo del nipote, gli A.D.D., che grazie a youtube passeranno in poco tempo da perfetti sconosciuti a idoli delle folle.


Peter Cattaneo (Full Monty, Lucky Break) ritorna così alla regia e alle commedie dopo un lungo periodo di pausa, e lo fa perdendo all’apparenza buona parte della sua identità. Se infatti in Full Monty la comicità era sempre legata a doppio filo con trama e risvolti di un certo spessore, qui la continua ricerca della risata sembra servire più a riempire quel vuoto lasciato da un intreccio narrativo alquanto debole e che non riesce, o probabilmente neanche ci prova in realtà, a discostarsi dai soliti canoni da fiabetta hollywoodiana. Presenti quindi tutti gli stereotipi e i clichè del genere, dal riscatto dello sbandato e perdigiorno Fish alla presenza di immancabili figure come il nipote timido e grassoccio, il bel tenebroso dal passato tormentato e la ragazza bellissima afflitta da misteriosi e metafisici turbamenti.


Per fortuna però le gag presenti funzionano eccome, con Rain Wilson in particolare a rivelarsi autentico mattatore della pellicola e perfetto nel rivestire i panni del Jack Black di School of Rock e Tenacious D e il destino del Rock (..ops!), con il film così ad offrire due ore di sano e spensierato divertimento nonostante l’insostenibile finale, capace di far rabbrividire per eccesso di melassa persino il più pacioccone tra gli orsetti del cuore.

The Rocker in definitiva, chiarito il filone d’appartenenza e le ambizioni, funziona. Non rivoluzionerà il mondo del cinema e né tanto meno quello del Rock, ma ci strapperà comunque più di qualche sincero sorriso grazie alla sua melodia godibile ed accattivante.

lunedì 18 agosto 2008

[360] Soul Calibur IV


Dopo un intervallo di quasi tre anni dalla sua ultima apparizione, la serie di Soul Calibur ritorna sulle console di tutto il mondo, approdando per la prima volta sui rigogliosi lidi della next gen con un cospicuo carico di novità e inaspettate sorprese, da un sistema di combattimento riveduto e corretto alla presenza di un editor di personaggi incredibilmente profondo e curato fino all’introduzione di nuovi e insospettabili combattenti. Ma avranno Siegfried e soci ancora lo smalto di un tempo? E riusciranno ad imporsi anche questa volta come i migliori nel loro genere di appartenenza? Cerchiamo di scoprirlo insieme.

A tale of souls and swords


Un fattore che da sempre contraddistingue i vari episodi di Soul Calibur è la cura riposta nell’elaborazione di varie modalità da giocare in singolo, e questo quarto capitolo continua la tradizione seppur in maniera leggermente minore. Accanto infatti all’immancabile Arcade Mode abbiamo così uno Story Mode e la new entry rappresentata dalla Torre delle Anime, modalità ambedue che andranno a costituire le maggiori fonti di guadagno crediti da spendere poi nell’immenso e esaustivo editor dei personaggi. Analizzando in velocità queste modalità di gioco, nello Story Mode affronteremo cinque diversi stage con incontri multipli che seguiranno all’incirca le vicissitudini di ogni combattente, vicissitudini narrate con un prologo testuale e concluse con un breve e non sempre esaustivo filmato: nonostante infatti il titolo si prodighi per dare ad ognuno dei propri protagonisti un background e una trama sensata, è innegabile che rispetto al passato la cura riposta in questo dettaglio sia assai scemata, ma è un elemento che in fin dei conti può essere giustificato dall’elevatissimo numero di personaggi (ben 34) presenti nel gioco. La Torre delle Anime invece consiste in una serie di sfide a difficoltà crescente da affrontare creandosi a tavolino un personaggio o una versione modificata di uno già esistente, visto che grande importanza avranno qui le varie abilità e bonus speciali ottenibili attraverso l’editor, indispensabili per tentare la scalata a tutti i piani della torre: progredendo nella salita riceveremo in cambio del denaro e, rispettando determinati requisiti, anche pezzi speciali d’equipaggiamento, e una volta completati un certo numero di piani si potrà accedere anche ad una sorta di Survival Mode con annessi e immancabili premi. Nonostante quindi Soul Calibur IV offra parecchia carne al fuoco al confronto dei suoi cugini di reparto, rispetto al passato un po’ di amaro in bocca resta per quanto riguarda l’offerta in single player, soprattutto a causa di una Torre delle Anime davvero troppo frustrante, non solo a causa della sua difficoltà ma anche e soprattutto per via di alcuni requisiti rasentanti la pura follìa, e la brevità e la poca attenzione riposta nello Story Mode fanno poco di più per rendere l’esperienza in singolo godibile e duratura

I’ll break your soul


Dove invece i programmatori Namco hanno dato il massimo (oltre che nel già citatissimo editor, di cui parleremo a breve) è evidentemente nel sistema di combattimento, frutto e risultato ultimo dell’ormai ultra decennale esperienza maturata dai ragazzi nipponici in questo campo, e che si impone a nostro giudizio come la vetta più alta mai raggiunta da questa serie. Rispetto al terzo episodio infatti il gioco si presenta con un ritmo più lento e compassato, inserendo al tempo stesso un paio di novità atte a bilanciare e a pianare le differenze sempre esistite tra personaggi veloci e lenti. Fa cosi il suo debutto l’indicatore Gemma dell’Anima: questa sfera, posta al vertice estremo della barra della vita, inizialmente sarà di colore blu, ma man mano che pareremo i colpi avversari tenderà sempre di più verso il rosso fino a spezzarsi e a renderci vulnerabili soltanto per un brevissimo attimo ad una mossa finale in grado di chiudere immediatamente l’incontro. Inoltre, subendo colpi particolarmente pesanti, parte del nostro equipaggio potrebbe andare in frantumi, esponendo così non solo le grazie di alcune fanciulle ma aumentando i danni ricevuti in quella determinata area del corpo.Tutte queste novità, la Gemma dell’Anima, le mosse finali e l’equipaggiamento distruttibile, non solo incentivano all’abbandono di un approccio eccessivamente attendista e all’utilizzo delle Guadie ad Impatto (tecnica di difesa che non solo disorienta l’avversario al parare del colpo, ma che in questo caso comporterà anche un miglioramento delle condizioni della nostra Gemma dell’Anima), ma offrono finalmente una marcia in più a quei combattenti più lenti, che potranno sopperire così alla loro mancanza di rapidità con colpi dall’elevato potere distruttivo in grado di mandare ben presto in frantumi le difese avversarie. Passando in rassegna invece il cast dei personaggi, le new entry sono molte, anche se quelle prettamente pertinenti all’universo di Soul Calibur sono soltanto due, il nuovo boss finale Algol e la bellissima Hilde, giovane cavallerizza armata di lancia e spadino graziata non soltanto da uno strepitoso design ma anche da un set di mosse decisamente interessante. Gli altri nuovi innesti spaziano da una serie di bonus character disegnati da famosi mangaka, che pur vantando un design indubbiamente originale (seppur totalmente fuori contesto) purtroppo risultano dal punto di vista della giocabilità dei meri cloni di alcuni personaggi principali, alla presenza di Yoda su 360 e Darth Vader su PS3, con l’Apprendista segreto di quest’ultimo ad essere selezionabile su entrambe le console. A differenza dei bonus character, i tre Jedi hanno tutti un loro parco mosse originale, ma portano con loro anche dei problemi di bilanciamento: se Darth Vader infatti bilancia l’uso della forza con una certe lentezza e macchinosità di fondo, la statura minuta di Yoda consente di evitare fin troppi attacchi avversari, mentre l’Apprendista segreto pare essere dotato di una potenza e di una velocità davvero eccessive.

Sephirot vs Zelda!?


Infine, eccoci finalmente a parlare dell’editor. Inserito per la prima volta nello scorso capitolo col nome Create A Soul, l’editor dei personaggi torna in questa quarta reiterazione e lo fa alla grandissima, portando con se una profondità e una varietà di scelte e customizzazioni mai viste prima. Oltre 350 sono infatti gli oggetti da sbloccare e comperare giocando (ogni modalità pertanto darà del denaro, anche le sfide online), con gli item a spaziare da una serie infinita di elmi, armature e mantelli fino a pezzi più particolari ed “interessanti”, come mise da infermiera, uniformi da donna delle pulizie, tute da gatto, maschere raffiguranti vari animali ecc. Le possibilità son davvero infinite, e con 50 slot disponibili per salvare le proprie creazioni originali o versioni modificate di personaggi già esistenti, lo spazio concesso alla fantasia e al gusto di ogni giocatore è davvero enorme. Inoltre, ad incentivare ancora di più l’utilizzo di questa modalità è la possibilità di usare nelle sfide online questi personaggi, offrendo così l’opportunità di mostrare agli altri la bontà del nostro lavoro. Dopo ora passate a giocare in rete così non sarà difficile incappare in alcune figure più rappresentative della storia dei videogiochi, come alcuni personaggi provenienti da vari Final Fantasy o altri importati da manga e anime, che grazie all’estrema potenza dell’editor potranno essere ricreati con insospettabile verosimiglianza. A proposito dell’online, Namco ha deciso di dividere le sfide in rete in due categorie, Standart e Special, con quest’ultima a differenziarsi dalla prima per l’utilizzo di tutte quelle abilità bonus e caratteristiche aggiuntive derivanti dall’utilizzo di determinati equip ed armi; in entrambe le modalità è invece concessa la scelta di partecipare a partite classificate o meno. Se quindi l’editor e l’ottimo sistema di gioco pongono delle ottime basi per una grande esperienza di gioco online, purtroppo il net code spesso non si rivela all’altezza, con partite a soffrire il più della volte di una leggera lag che rende difficile eseguire alcune tecniche come la fondamentale Guardia ad Impatto, mostrando così il fianco di conseguenza a condotte di gioco più caotiche e “smanettone”. Il consiglio in questi casi è di limitare le sfide online ad elementi vicini geograficamente a voi, sperando che con le prossime patch Namco riesca a migliorare un pochino la situazione.

PS3 vs X360


Spendendo giusto due parole sul lato tecnico del gioco, i possessori di entrambe le console next gen possono tirare tranquillamente un sospiro di sollievo. Sia sul monolite nero Sony che sulla bianca ammiraglia di marca Microsoft infatti il gioco risulta tecnicamente eccezionale, con le due versioni ad essere in estrema sintesi del tutto speculari, e a differenziarsi soltanto per la presenza di Darth Vader su una e Yoda sull’altra. Con ottimi effetti di luce, personaggi incredibilmente dettagliati ed animati e con scenari alcuni davvero mozzafiato, Soul Calibur IV risulta essere uno spettacolo notevole su entrambe le piattaforme, soffrendo giusto in rari casi di leggeri rallentamenti riscontrabili però soltanto in concomitanza di un K.O., e quindi del tutto ininfluenti sulla giocabilità. Per quanto riguarda l’audio, a musiche tutto sommato apprezzabili si accompagnano delle voce in inglese spesso fastidiose e dalla recitazione troppo accentuata, quasi caricaturale: in questo caso il passaggio all’audio giapponese è più che consigliato, con le voci del Sol Levante a risultare più consone e apprezzabili nonostante la loro totale incomprensibilità.

Commento finale

Soul Calibur IV ritorna e con questo nuovo episodio si riprende immediatamente lo scettro di miglior picchiaduro 3D disponibile su piazza. Un comparto tecnico ineccepibile, un sistema di gioco inizialmente estremamente accessibile ma al contempo dotato di una grande profondità, un parco personaggi vastissimo con una moltitudine di stili differenti, un editor strepitoso, la modalità online:. il picchiaduro Namco stordisce per qualità e quantità, presentando un’offerta che difficilmente potrà essere eguagliata dai concorrenti. Gli unici appunti che possono essere mossi a quest’ultimo capitolo di una serie ormai storica sono la minor cura riposta nelle modalità per un giocatore singolo e qualche problema eccessivo di lag, ma sono sottigliezze. Per il resto Soul Calibur IV è un gioco magnifico, la giusta scelta sia per chi fosse alla ricerca di un picchiaduro immediato e spettacolare ma anche per chi in questo genere di giochi cerchi un gameplay tecnico ed elaborato.


venerdì 18 luglio 2008

[360] Rock Band




Finalmente. Dopo un incomprensibile ritardo dovuto a ragioni oscure ed imperscrutabili, Eletronic Arts ed MTV Games si sono decise infine a portare Rock Band in Europa (anche se, ahinoi, non in Italia..), offrendo così l’opportunità anche ai giocatori del vecchio continente di poter provare con mano il miglior music game dell’anno. Perché diciamolo subito, nonostante l’incremento esorbitante del prezzo degli strumenti avvenuto col cambio dollaro/euro, nonostante i sei mesi di ritardo accumulati dall’uscita americana, il gioco Harmonix si conferma ancora oggi come il miglior esponente del genere attualmente su piazza, un titolo in grado di mescolare alla perfezione party e music game in un mix esplosivo capace di regalare infinite ore di assoluto divertimento a chi avrà la fortuna di avere amici pronti a seguirlo nella formazione di una squinternata e improbabile band.


Per chi non suona in compagnia del solista vi è la via


Pur essendo sostanzialmente un’esperienza multiplayer, Rock Band offre comunque dei contenuti pensati esclusivamente per chi volesse optare per un approccio individuale al gioco. La carriera solista infatti prevede, sulla scia di quanto già visto in Guitar Hero, vari pacchetti di brani di crescente difficoltà, al termine dei quali passeremo ad esibirci in una nuova città con relativa inedita scaletta. A differenza del titolo in mano ora a Neversoft però, in Rock Band non avremo solo la carriera di chitarrista da intraprendere, ma anche quella di batterista e di cantante. Soprassedendo sul gameplay della chitarra, che non si discosta da quanto già apprezzato in GH se non per la presenza di un maggior accento riposto sugli assolo, con la possibilità di eseguirli interamente tramite tapping qualora si stesse utilizzando la chitarra ufficiale del gioco, prevedibili novità caratterizzano invece le altre due carriere percorribili dal giocatore. Intraprendere il ruolo di frontman comporterà essenzialmente il riuscire a prendere le giuste note di ogni brano, conformando la nostra voce alla tonalità del pezzo, con le parole a svolgere un ruolo soltanto marginale.

Non un karaoke quindi ma più una prova di intonazione, nella quale saremo coadiuvati da un’interfaccia molto simile a quella ammirata nel Singstar di casa Sony: unica differenza è la presenza di alcuni pezzi strumentali, durante i quali dovremmo battere a tempo sul microfono per riprodurre il suono di un tamburello o aggeggi simili. A fare la parte del leone però nella modalità solista è indubbiamente la batteria, vera new entry del gioco e strumento in grado di divertire pienamente anche in mancanza di compagnia. Dotato di quattro “piatti” e di un pedale per la cassa, la batteria segue spartiti dalla fattezze simili a quelli degli altri strumenti, offendo però un’esperienza decisamente più ritmica e coinvolgente grazie in particolar modo alla maggior rassomiglianza riscontrabile con lo strumento reale e al maggior dinamismo e impegno fisico richiesto. In ultimo va menzionato la presenza di avatar totalmente personalizzabili in ogni minimo dettaglio, dalla corporatura e luogo di nascita fino a vestiti, piercing e tatuaggi acquistabili mediante i soldi guadagnati con i nostri concerti.

Alla conquista del mondo

l vero cuore di tutta l’esperienza di Rock Band tuttavia risiede nella modalità World Tour. Qui, in compagnia di altri amici (fino a quattro insieme, con l’ultimo a dedicarsi al basso), una volta creati i propri personaggi e selezionata la città di partenza si passerà al fondare una band al principio sfigatissima, senza neanche mezzo fan e con soldi insufficienti persino ad affittare uno sgangherato pulmino. Iniziando a suonare nei locali più “intimi” e scaldando gli animi del pubblico con esibizioni convincenti però cominceremo ad avere ben presto il nostro seguito di appassionati e i primi guadagni, con l’opportunità anche di cimentarsi in sfida speciali dai premi più disparati, che vanno dall’acquisto del nostro primo bus privato all’assunzione di un tecnico del suono fino ad avere un intero jet al nostro servizio, mediante il quale potremo così andare a suonare nei festival e nei più grandi stadi del mondo. Ogni località avrà poi le sue particolarità, con i Londinesi a richiedere ad esempio una maratona di pezzi tipicamente british per essere conquistati, o serate dedicate al rock anni ’70 e altre ancora invece incentrate sul metal più incalzante. In tutto questo il gioco di squadra tra i membri della band non solo è incoraggiato, ma risulterà a dir poco fondamentale: l’utilizzo appropriato degli Overdrive (l’equivalente dello Star Power di GH) infatti non solo porterà a raggiungere punteggi apparentemente irrealizzabili, ma potrà salvare anche un compagno in difficoltà, riportandolo in pista qualora dovesse sbagliare troppe note, salvaguardando così non solo la sua prestazione ma quella dell’intera band, che di fronte ad una prestazione fallimentare perderà un nutrito gruppo di fan. Tutto questo inoltre è reso ancora più coinvolgente dalla possibilità di avere in scaletta brani scaricati dal Music Store, aggiornato di settimana in settimana con nuovi brani e vecchie glorie del passato: Oasis, Red Hot Chili Peppers, Disturbed, Avenged Sevenfold, Metallica sono solo alcuni nomi di un catalogo a dir poco sterminato, una libreria di brani che annichilisce per varietà e qualità qualsiasi concorrenza. La possibilità di cimentarsi nei propri pezzi preferiti, il grande feeling di gruppo, la perfetta riproduzione del pubblico e dell’atmosfera di un concerto sono tutti elementi che fanno dell’esperienza multiplayer di Rock Band qualcosa di unico, un sogno per tutti coloro che hanno sempre voluto cimentarsi nella creazione di una band ma non hanno mai avuto la voglia, la pazienza o l’opportunità di apprendere un vero strumento.

Ma quanto mi costi?

Snocciolati tutti i punti di forza di Rock Band, è ora di passare alle noti dolenti, che si potrebbero riassumere in un'unica e temutissima parola: il prezzo. Il gioco nella sua versione europea costa davvero uno sproposito. Il prezzo ufficiale di strumenti e gioco infatti si aggira sui 240 euro, una somma con la quale al momento si potrebbe acquistare una console X360: andando a rivolgersi verso negozi specializzati d’oltre manica la spesa può scendere fino a 190 euro circa per il tutto compreso, ma resta sempre una cifra incredibilmente quanto inspiegabilmente lontana dai 160 dollari della versione americana. Inoltre c’è da segnalare come nessuno degli strumenti del gioco sia wireless e di come la chitarra del gioco offra meno solidità e comfort rispetto a quella, per di più senza fili, di Guitar Hero III: ottimi invece microfono e batteria, anche se per ques’ultima è consigliata un po’ di cautela nell’utilizzo del pedale, il quale essendo di plastica potrebbe rompersi se sollecitato con eccessiva foga.

Commento finale

Rock Band è il perfezionamento della lunga e gloriosa carriera di Harmonix nell’ambito dei giochi musicali. Dopo aver sfornato i primi due Guitar Hero infatti, questo riuscito connubio tra programmatori e musicisti ha dato la luce a quella che può essere vista come la naturale evoluzione della loro serie precedente, ampliando quanto fatto per la chitarra a tutta un’intera band rock. Il risultato è un music game strepitoso, capace di coinvolgere anche i meno portati alla musica grazie ai diversi livelli di difficoltà presenti e al grande divertimento derivante dal suonare con degli amici. Una realizzazione grafica pregevole, personalizzazione del proprio avatar e una sconfinata libreria di brani tra i quali scegliere sono elementi che non fanno altro che arricchire ulteriormente il valore complessivo di Rock Band, consacrandolo come il migliore esponente del suo genere attualmente sul mercato. Peccato soltanto per il prezzo esorbitante delle periferiche e della mancata pubblicazione qui nel nostro bel paese, due elementi che pregiudicano in larga parte la fruibilità del titolo da parte del grande pubblico nostrano.