Have an account?

domenica 28 dicembre 2008

[Cinema] Lissy - Principessa alla riscossa


Come consorte dell’erede della dinastia asburgica, per Lissy la vita non è altro che un susseguirsi di divertimenti e folli attività ricreative. In compagnia del suo amato Franz infatti, la bella principessa spende le sue giornate in maniera decisamente particolare, dal bruciare banconote per riscaldarsi all’improvvisare improbabili siparietti erotici per il suo adorato Frantz. Ma la pacchia è destinata a finire ben presto. Uno Yeti proveniente dall’Himalaya, costretto dal diavolo in persona a stringere con lui un criminoso patto, la rapirà per avere salva la vita, dando il via ad una rocambolesca caccia all’inseguitore e ad una serie di eventi che vedranno come protagonisti la sempre divertita Lissy e un’altra schiera di improbabili personaggi.

Partorita dalla mente di Michael Bully Herbig, ovvero l’ideatore di “Bullyparade”, storica trasmissione comica della televisione tedesca, Lissy (che nella versione italiana parla con la voce della sublime Lorella Cuccarini) non è altro che la reinterpretazione in chiave demenziale della figura storica di Sissi, amatissima imperatrice d’Austria e regina d’Ungheria. A differenza dell’originale però Lissy difetta sia d’eleganza che di classe, celando (ma neanche troppo) sotto il suo aspetto avvenente una personalità squinternata, svampita, eccessiva e qualche volta addirittura volgare. Accanto a lei ruotano personaggi della medesima risma, come l’imperatrice madre, sempre smaniosa di dare briglia sciolta alla sua libido, o il federmaresciallo, valletto di corte a metà tra il giullare e il masochista. Aggiungendo a questo delirante calderone anche lo Yeti, figuro contraddistinto da modi rozzi e dalla totale avversione a qualsiasi tipo di sentimento umano, quello che se ne ricaverà sarà una mistura che difficilmente non potrà far venire alla mente Shrek e la sua trilogia, dalla quale la pellicola tedesca sembra prendere più di qualche semplice spunto.

La parodia di svariati film (da Moulin Rouge a King Kong), la palese somiglianza di alcuni personaggi, la condivisione dei temi trattati: sono molti insomma i nodi che legano Lissy alla Fiona di casa DreamWorks. A differenziare il tutto però ci pensa il timbro e il tenore delle gag presenti: se nel film d’animazione americano il target principale era sempre e comunque quello dei più piccini, qui invece spesso e volentieri si susseguono sketch indirizzati palesemente ad un pubblico maggiorenne, ricordando nello stile e nella sostanza film come Una pallottola spuntata o i più recenti Scary Movie. Il problema è che qui, ancora di più che nei film appena citati, le gag sembrano susseguirsi in maniera assolutamente casuale, mal sorrette e concatenate da una trama lacunosa e mai ispirata, dando vita così ad un prodotto che corre il rischio di risultare tanto noioso agli adulti quanti incomprensibile per i più piccoli.

Non che Lissy – Principessa alla Riscossa non abbia i suoi momenti: alcune battute risulteranno sinceramente divertenti, e il livello dell’animazione, seppur lontano per motivi di budget dai colossi d’oltreoceano, è indubbiamente apprezzabile, ma in generale questa produzione tedesca pecca d’identità e originalità, risultando in una serie di collage di ritagli già visti e che mal si appaiano tra loro.

sabato 27 dicembre 2008

[Cinema] Ember - Il Mistero della Città di Luce


Nel cuore della terra, flebile brilla l’ultima speranza per il genere umano. In un futuro apocalittico ormai piuttosto consueto, l’uomo l’ha fatta di nuovo grossa: stravolta da guerre e distruzioni atomiche il pianeta è ormai giunto al collasso, tanto che l’unica carta rimasta all’umanità per preservare la propria esistenza è quella di creare una città sotterranea, Ember, e abitarla fino al giorno in cui la terrà sarà di nuovo a misura d’essere vivente. Ma molti, moltissimi anni sono passati, e il tempo ha portato via con se sia l’origine che lo scopo di Ember, tanto che ormai gli abitanti della città sono convinti che non esista nulla al di fuori di essa, unica luce in un mondo di tenebre ed oscurità. In mezzo a questo miscuglio di ignoranza, misticismo e cieca obbedienza però due bambini cercano la verità e, sovvertendo ogni legge e imposizione, troveranno infine una via per fuggire dal declino della città ormai morente.


Tratto dal romanzo di Jeanne DuPrau, Ember – Il Mistero della Citta’ di Luce è in parte uno specchio fedele di quegli spettri che agitarono i sogni della giovane scrittrice, nata in un’epoca in cui lo sviluppo sempre maggiore degli arsenali nucleari sembrava preannunciare un’apocalisse ormai imminente. Forte quindi sono temi quali la ricerca della salvezza attraverso la segregazione dal mondo esterno e anche dagli altri individui, ma anche l’impellente necessità di credere ad individui superiori e divini (si pensi ai costruttori) e l’obbedienza incondizionata verso un dittatore, guida e allo stesso tempo carceriere del proprio popolo. Il tutto viene trattato nel film di Gil Kenan però con una certa leggerezza che sfocia spesso e volentieri nella superficialità: la pellicola è difatti chiaramente indirizzata ad un pubblico giovanile, e ben presto le cupe premesse lasceranno spazio ad una sorta di caccia al tesoro dei due protagonisti, che tra oscuri indizi e improbabili marchingegni (ricordando in questo un classico come i “Goonies”) ricomporranno il puzzle che li condurrà alla meta finale. Purtroppo però, nel suo processo di semplificazione di trama e personaggi, a farne le spese sono stati attori del calibro di Tim Robbins, Martin Landau e Bill Murray, qui ridotti a scarne figure dallo spessore infinitesimale e dalla caratterizzazione addirittura macchiettista. L’unica eccezione forse è proprio nel disgustoso sindaco interpretato dal buon Murray, celluloide rimando di come avidità, corruzione e prevaricazione dell’interesse comune siano germi comuni quando si stringono tra le mani le redini del podere.


In questo quadro non sarà quindi una sorpresa constatare che, alla fine della fiera, il vero protagonista del film è Ember stessa: nella sua decadenza, nella sua architettura futuristica così melanconica e fatiscente, nel suo avvolgersi tra le coperte del suo pallido candore spinto da un generatore ormai morente, in tutto insomma questo risiede la vera anima del film, un’umanità in bilico tra un nuovo avvento e il giudizio universale eppure ancora intrappolata nei vizi e negli eccessi di sempre. Ma questo si svelerà solo davanti agli occhi di coloro che vorranno guardare con attenzione. Per tutti gli altri, Ember – Il Mistero della Città di Luce non sarà altro che uno dei tanti film di questo periodo festivo, una passatempo tanto piacevole quanto effimero e passeggero.

mercoledì 17 dicembre 2008

[360] The Last Remnant


Dopo un lungo e apparentemente interminabile periodo di assenza, Square Enix sembra ufficialmente uscita dalla penombra e, dopo il recente Infinite Undiscovery, torna a firmare un nuovo jprg ad esclusivo appannaggio (seppur temporale) dell’utenza X360. Sarà The Last Remnant l’inizio di un nuovo periodo d’oro per la software house nipponica o l’ennesima conferma che, dopo la dipartita di alcuni storiche figure chiave, in effetti un po’ dell’antica magia è andata smarrita per strada? Andiamo a scoprirlo.


Un caricamento lungo tutta una vita


Di solito non usiamo aprire le nostre recensioni disquisendo dell’aspetto tecnico dei giochi da noi esaminati, ma in questo caso ci è parso un passo dovuto e necessario visto i notevoli problemi riscontrati a riguardo e il grosso impatto che questi hanno sulla fruibilità del gioco da parte dell’utente. Inutile girarci troppo intorno: graficamente The Last Remnant è un mezzo disastro. Basteranno i primi minuti di gioco per rendersi conti di quanti e quali problemi questo titolo soffra, dall’estremo ritardo nella visualizzazione delle texture ad un frame rate claudicante fino all’ esorbitante numero di caricamenti presenti. E quest’ultimo in particolare, per quanto possa forse suonare strano, è un problema madornale. C’è qualcosa di vagamente perverso e snervante nell’entrare in una città, arrivare nella piazza principale, visitare la consueta taverna, uscire e tornare in piazza e poi ripassare alla world map e nel processo sorbirsi decine di schermate di loading, il tutto poi magari per parlare giusto un istante con un determinato personaggio. Si tratta di un problema in verità già riscontrato un produzioni analoghe (il pensiero va al Lost Odyssey di Mistwalker, anch’esso mosso dall’Unreal Engine 3) ma qui presente in maniera veramente eccessiva e assolutamente intollerabile per gli standard odierni. E a poco serve la possibilità di poter installare il gioco su hardisk, visto che questo non farà altro che ridurre in maniera minima i tempi di loading ma prendendosi in cambio ben sei giga di memoria, cifra eccessiva considerata la capienza normale dei dischi rigidi in dotazione per X360. Un peccato davvero, perché a livello di design il lavoro svolto è di primissima qualità, con personaggi e ambientazioni originali e curate nei minimi dettagli che finiscono però per essere seppelliti sotto una marea di bug grafici. A chiudere infine la valutazione non certo esaltante del lato audiovisivo del gioco abbiamo inoltre musiche piuttosto anonime, incapaci di suggestionare o emozionare a dovere, e un doppiaggio in inglese tanto enfatico da risultare involontariamente ridicolo e caricaturale, e l’impossibilità di poter scegliere l’originale in giapponese (opzione alla quale ormai ci eravamo abituati) non è che l’ultima di una serie di delusioni piuttosto cocenti.

L’unione fa la forza


Parlato di quelli che sono i molti problemi di The Last Remnant, ci sembra ora il caso di sottolineare quelli che sono indubbiamente alcuni punti forti, e tra questi spicca sicuramente il sistema di combattimento. Ultimo figlio di una lunga tradizione alla continua ricerca di un qualcosa di nuovo in grado di sovvertire i soliti stilemi del genere, il battle system gira tutto sulla gestioni delle così dette unioni, ovvero squadre composte da massimo cinque personaggi e in grado di operare come una singola unità. A differenza infatti di quanto accade di norma, in The Last Remnant impartiremo ordini non ad una serie di individui ma a piccole truppe, ognuna configurabile a piacimento dal giocatore, che potrà scegliere quali formazioni adottare, da quelle più offensive ad alcune più caute, e che tipo di unità avere, selezionando di volta in volta i membri maggiormente adatti alle proprie necessità. Inoltre un ruolo fondamentale lo giocherà anche la posizione sul campo di battaglia: caricare a testa bassa un gruppo di nemici infatti potrebbe esporci ad attacchi laterali dalle adiacenti truppe nemiche, ma allo stesso tempo magari offrire ai nostri compagni l’opportunità di eseguire una devastante imboscata alle loro spalle. E’ decisamente marcata l’impronta strategica data dai programmatori al gioco, ed è di conseguenza un peccato che questa non venga fuori prima di svariate ore, costringendo all’inizio il giocatore ad una serie di semplicissime battaglie che potrebbero fuorviare e dissuadere dall’andare oltre i meno pazienti, e che facendo il paio con la mediocre realizzazione tecnica rendono The Last Remnant un gioco dall’approccio assai ostico e conflittuale.

Uno strategico mancato


Ultima in questa sorta di recensione sottosopra, la trama dell’ultima fatica Square Enix non si discosta più di tanto dalle solite tematiche e dagli immancabili clichè che ormai abbiamo imparato a conoscere in anni ed anni di esperienza, offrendo però di contro qualche spunto abbastanza interessante. Nei panni del giovane Rush Skyes, le prima battute del gioco ci vedranno alla ricerca della nostra amata sorellina rapita da un oscuro figuro a bordo di un Remnant, arcani artefatti dotati di immenso potere capaci di alterare e governare la vita di interi popoli. Ovviamente ben presto il focus si sposterà proprio sui Remnant e sul loro controllo, e con esso avrà il via l’immancabile lotta per scongiurare il dominio del mondo da parte del cattivone di turno. Peccato però che la progressione nella trama avvenga mediante una fase esplorativa ridotta ai minimi termini, con le città vivisezionate in spartani hub atti solo all’arruolamento e all’equipaggiamento di nuove truppe e dungeon decisamente lineari, nei quali una semplice mappa, reperibile di norma all’entrata. ci indicherà ogni volta senza alcuna possibilità di errore la via da seguire. Quello che resta da fare quindi al giocatore è semplicemente esplorare le zone alla ricerca dei nemici, tanto che non sembra azzardata l’idea, visto anche la natura della world map (non esplorabile in alcun modo) e la grossa enfasi posta sul combattimento, che Last Remnant sia quasi una sorta di strategico mancato, al quale non si sa bene per quale ragione sia stato poi aggiunto una fase esplorativa assolutamente fiacca e dimenticabile, aspetto questo ulteriormente enfatizzato dalle varie missioni secondarie disponibili nel corso dell’avventura. Un vero controsenso.

Commento finale

The Last Remnant è indubbiamente un gioco bizzarro. Afflitto da enormi problemi tecnici e da una struttura di gioco non sempre coerente, l’ultima creatura Square Enix probabilmente metterà in fuga molti di quelli che non riusciranno ad andare oltre le prime, traumatiche, ore di esperienza. I più eroici invece, una volta superato lo scoglio iniziale, si troveranno alla prese con un jrpg dotato di un sistema di combattimento stimolante e dalla forte componente strategica, oltre che con una trama capace di catturare l’attenzione per trenta e più ore. Certo i problemi restano, e a quelli tecnici man mano si affiancano anche alcune scelte di design difficilmente condivisibili che rendono ancora più palese, semmai ce ne fosse bisogno, come ormai il genere soffra di una crisi di identità dalla quale ancora stenta a tirarsi fuori.


giovedì 4 dicembre 2008

[360] Shaun White Snowboarding


Quella dei giochi dedicati allo snowboard è un’onda lunga che viene da lontano. Il primo titolo ad imporsi al grande pubblico fu probabilmente il Cool Boarders targato UEP System, che nel 1996 approdò sulla primo genita Sony e riscosse un successo tale da dare il via, di lì a poco, ad una serie di vari seguiti uno più fortunato dell’altro. Più recentemente poi, l’Amped di casa Microsoft ma soprattutto l’esplosivo SSX targato EA hanno definitivamente affermato il genere come uno dei più apprezzati dal grande pubblico in ambito sportivo, e di conseguenza sarebbe stato logico aspettarsi, con l’avvento dell’attuale next-gen, un ennesimo proliferare di titoli con protagonisti una montagna scoscesa e folli a bordo di tavole pronti sfidarsi all’ultimo trick. E invece nulla. Per qualche ragione a noi ignota niente di tutto questo è accaduto, e lo snowboard è improvvisamente sparito dalle nostre console. Almeno fino ad oggi. Con Shan White Snowboarding infatti Ubisoft monta sulla seggiovia e punta diretta alla cima più alta, con tutta l’intenzione di imporsi, in un campo sgombero da rivali, come l’unica alternativa possibile per gli amanti del genere. Ma sarà una prestazione da medaglia d’oro, o il team canadese incapperà in una rovinosa caduta?

Se la montagna non va da Maometto…prendi la seggiovia


La prima cosa che si nota subito del titolo Ubisoft Montreal è la sua impostazione di base totalmente difforme dalla norma. Se infatti i titoli del genere ci avevano abituato a discese secche contro avversari o con l’obiettivo di eseguire il maggior numero di trick, o con quelli di tagliare per prima il traguardo, qui i programmatori hanno optato per un approccio ormai in voga un po’ ovunque, ovvero l’immancabile free roaming. Eccoci quindi con a disposizione un’intera montagna (anzi in realtà ben quattro, poste rispettivamente in Europa, Alaska, Utah e Giappone) liberamente esplorabile dal giocatore, che potrà così usufruire di varie seggiovie o di un comodo passaggio in elicottero per raggiungere la cima, con addirittura l’opzione di slacciarsi lo snowboard e lanciarsi in un improbabile e faticosissima camminata. Ed è questa una caratteristica da non trascurare, perché grande risalto è stato posto proprio sull’esplorazione da parte del giocatore di questi enormi parchi giochi innevati, con le montagne così a celare numerose discese, velocissimi tratti ghiacciati e spericolati fuori pista dove non saranno rare folli discese nel disperato tentativo di non farsi inghiottire dall’arrembante valanga alle nostre spalle. Seconda caratteristica peculiare di Shaun White Snowboarding è poi la completa integrazione della componente multiplayer nell’esperienza per singolo giocatore: ricalcando in questo modo quanto visto già in Burnout Paradise, sarà possibile da un momento all’altro passare dalla discesa solitaria a quella di gruppo semplicemente sostando in determinati punti di interesse e sfidarsi immediatamente, grazie ad un sistema di match making piuttosto rapido, in competizioni con amici e avversari provenienti da ogni parte del globo.

Anche la libertà ha il suo prezzo


Se quindi sulla carta l’impostazione del gioco parrebbe indubbiamente vincente, al riscontro dei fatti ben presto i primi nodi verranno a palesarsi. Il primo, grande elemento di rammarico è la scarsa quantità e diversificazione delle competizioni proposte dal titolo Ubisoft, limitate a classiche gare di velocità, half pipe e gare di trick nel contesto di snow park e strutture simili. Nonostante infatti la notevole ampiezza delle discese innevate, le gare saranno sempre presenti in numero piuttosto esiguo, e quando scoprirete che buona parte di esse saranno riservate esclusivamente alla modalità multiplayer, un primo e fastidioso moto di sconforto comincerà a manifestarsi anche nel più inguaribile degli ottimisti. Il team canadese sembrerebbe di fatto aver puntato più sull’invogliare il giocatore ad esplorare l’ambiente intorno a se (come palesato dalle varie monete da raccogliere sparse per tutta la distesa innevata), quasi a voler riprodurre il vero spirito celato dietro un gruppo di amici snowboarder che si appresta a vivere la montagna in compagnia: un intento indubbiamente originale ed interessante, ma che sembra non funzionare a dovere quando in realtà si è seduti in tutta comodità davanti ad un televisore. Altro elemento di forte perplessità è il sistema di controllo: a metà tra un approccio realistico e uno più user friendly, Shaun White Snowboarding rifiuta gli eccessi di tecnicismo di un Amped ma si tiene anche lontano dalle adrenaliniche vette di iper realtà toccate da un SSX, scegliendo una via di mezzo che non convince in quanto accomuna semplicità ad una scarsezza di abilità e trick eseguibili piuttosto castrante. E’ proprio nella ricerca di un’identità che il titolo si smarrisce. Privo delle potenti dosi di adrenalina dei titoli più spericolati e sviscerato di qualsiasi voglia tecnicismo, il titolo Ubisoft presenta discese accomodanti, facili, innocue, una simpatica scampagnata invernale a bordo di docili e mansueti snowboard, sviscerando questo sport di buona parte delle sue qualità più accattivanti.

Sono Altair, ed esigo subito una tavola

Le ultime parole vogliamo infine spenderle sul lato tecnico del gioco. Dal punto di vista sonoro, nonostante un non proprio eccelso doppiaggio in italiano, Shaun White Snowboarding può farsi forte di una colonna sonora di assoluto livello, con artisti del calibro di Audioslave, Incubus e Bob Dylan, offrendo un ottima selezione di brani rock, indie e punk. Meno convincente purtroppo il reparto grafico. Nonostante l’ottima realizzazione del manto innevato e in generale del feeling di stare veramente scendendo sul bianco dorso di una montagna, per il resto il gioco presenta una cura del dettaglio davvero minima, con edifici ed elementi di contorno mal realizzati o addirittura appena abbozzati che stridono e sviliscono fortemente tutta l’impostazione free roaming alla base del gioco. Pollice verso anche per la realizzazione dei modelli poligonali, davvero grezzi e mal animati, elemento questo decisamente sorprendente visto che il motore grafico in questione è quello che al tempo mosse quella meraviglia di Assassin’s Creed. Se a tutto questo si aggiunge una fluidità non proprio eccelsa, incapace di restituire come dovrebbe la sensazione di velocità derivante dal lanciarsi a folle velocità dalla vette di una montagna, sarà chiaro che il quadro che ne esce non è certo dei più rosei.

Commento finale

Gettandosi in un’arena al momento priva di rivali, l’intenzione di Ubisoft era di proporsi, con il suo Shaun White Snowboarding, come l’unica alternativa possibile per i fan di questo spettacolare sport. Peccato che, a fronte di alcune idee sicuramente positive, il gioco soffra di diversi e non trascurabili difetti, che vanno da un sistema di controllo eccessivamente semplicistico e limitato ad una realizzazione tecnica decisamente non al passo con i tempi. Ma quello che più manca al titolo canadese è l’identità: a metà tra l’arcade e la simulazione, Shaun White Snowboarding tentenna tra le due opzioni restando infine nel mezzo, col risultato di scontentare sia i giocatori alla ricerca di un titolo frenetico e adrenalinico e sia quelli alla ricerca di una sterminata lista di trick e acrobazie da imparare a memoria. Un’occasione sprecata.

martedì 2 dicembre 2008

[Cinema] Torno a vivere da solo


Quanto ci piace il panettone? Non ne abbiamo la più pallida idea, e non sarà certo in questa sede che andremo a scogliere il metafisico nodo che tormenta da tempo “l’intelligentia” italica, impegnata a discutere di questo in comodi salotti al suon di vespa. Quello che è certo è che al pubblico nostrano il cine-pannettone piace, e anche parecchio. In primis fu la vincente accoppiata De Sica/Boldi. Poi divenne la rivalità Boldi/De Sica. Poi ancora all’acceso agone, direttamente dalle appendici del Vesuvio, si aggiunse la verace e contagiosa comicità di Vincenzo Salemme. Ma evidentemente questo è un mercato che fa gola eccome, e quest’anno ai soliti volti se ne aggiunge un altro, quello del redivivo e rubicondo Jerry Calà il quale, dopo aver battuto un colpo con Vita Smeralda, ritorna anch’egli sulla scena cinematografica con una nuova pellicola. Libidine?


Tono a vivere da solo è il sequel diretto della commedia datata 1982 e firmata da Marco Risi (figlio del grande Dino), quel Vado a vivere da solo che consacrò definitivamente al grande pubblico l’allora nastro nascente Jerry Calà. Ora, ventisei anni dopo, Giacomino è un affermato professionista ma al contempo un poco stimato capo famiglia, ignorato bellamente dai figli e mal sopportato dalla moglie, con la quale inoltre si è anche affievolita la verve amorosa. Raggiunto infine il limite, Giacomino decide appunto di tornare a vivere da solo, riassestando con l’aiuto del collega e amico Enzo Iachetti il suo ex-appartamento e finendo per venire invischiato in una improbabile serie di fallimentari avventure amorose, tradimenti, crisi parentali (simpatica la presenza di Paolo Villaggio) e figli immancabilmente feriti dall’irresponsabilità e immaturità dei propri genitori.


La regola di un buon critico dovrebbe essere quella di non partire mai prevenuti. Ma a volte prevenire è meglio che curare, e se lo dice persino la tv un fondo di verità ci sarà pure. Jerry Calà riemerge nuovamente dagli abissi degli anni ’80 ma restandone ancora una volta però ferocemente aggrappato, imprigionato in una sorta di limbo spazio-temporale dove tutti si ripete in continuazione e nulla cambia mai. Ritornano quindi le gag a base sessuale, quelle sui gay, sulle droghe leggere, sugli appetiti delle consorti del’est Europa (qui rappresentate dalle ipnotizzanti misure di Eva Henger), il tutto mescolato e accompagnato dall’immancabile dance music fatta con la pianola bontempi, genere ballato al giorno d’oggi forse giusto da sparuti gruppi di vampiri in occulte cripte sotterranee. Non manca persino il cameo della star d’oltre oceano, l’imbolsito Don Johnson di Miami Vice, qui doppiato con un accento alla cotoletta che non mancherà di far scorrere lungo la schiena dello spettatore brividi di puro terrore.

E’ tutto maledettamente, tremendamente trash, e non è facile dire quanto questo sia voluto o meno. Quello che però è palese è che, tolta qualche buona battuta dell’intramontabile Villaggio, si ride davvero poco o nulla, restando per la maggior parte della durata del film con la bocca in una sorta di sospesa paralisi, spalancata a metà tra la noia e lo sbigottimento. Insomma una volta era addirittura doppia libidine. Oggi si fatica ad intravederne una metà.