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mercoledì 26 novembre 2008

[Cinema] Never Back Down


Jake Tyler (Sean Faris) non riesce proprio a fare a meno di cacciarsi in delle risse. Filmato su un campo da football dell’Iowa mentre le suonava di santa ragione a degli avversari, Jake arriva così nel suo nuovo liceo ad Orlando con la fama di gran picchiatore, suscitando immediatamente l’interesse dell’immancabile bullo della situazione, tal Ryan McCarthy (Cam Gigandet), il quale tramite l’inganno riuscirà a sfidare e a sconfiggere sonoramente il nostro eroe in un incontro di MMA, ovvero Mixed Martial Arts. Ferito nell’orgoglio e non solo, Jake si affiderà alla carismatica figura del maestro Jean Roqua (il due volte candidato all’Oscar Djimon Hounsou) non soltanto per apprendere tutti i segreti delle MMA e porre fine al regno di terrore di Ryan, ma anche e soprattutto per confrontare e infine domare i suoi demoni interiori, scatenati quest’ultimi dalla recente morte del padre, evento di cui Jake si sente in buona parte responsabile responsabile.


Never Back Down è la non diretta riproposizione in salsa moderna di un grande classico del passato, il Karate Kid di Avildsen, dal quale la pellicola di Jeff Wadlow prende quasi tutta la sua ossatura principale, condita in più da una serie di clichè comuni ad una pletora sterminata di action movie. Ce n’è veramente per tutti i gusti: dalla ragazza bella e intelligente suo malgrado costretta a stare col bullo della scuola per essere accettata (Amber Head) alla mascotte Evan Peters, spalla comica di Jake e vittima designata per le angherie dell’incompreso Ryan, quest’ultimo così cattivo e violento perché cresciuto da un padre fondamentalmente imbecille e insensibile. In tutta questa serie di figure viste e riviste brilla Djimon Hounsou, che pur rivestendo panni assai canonici anch’essi, riesce con la sua interpretazione a dare una buona profondità al suo personaggio, la cui storia passata offre spunti di seria riflessione sugli immancabili mali derivanti dall’uso della violenza.


Ed è un peccato dunque che nel resto del film sia continuamente riproposta invece questa versione patinata e seducente dello scontro fisico, di una violenza non soltanto priva di reali conseguenze fisiche (i personaggi del film guariscono da terrificanti scazzottate in men che non si dica) ma persino veicolo di accettazione e promozione sociale, come testimoniano gli sguardi lascivi rivolti verso Jake dalle sue coetanee all’alba dell’ennesima sua rissa finita in rete. Non vorremmo aver preso una clamorosa cantonata, eppure in determinati frangenti ci è apparso quasi di assistere ad un inno al bullismo, o comunque ad un’eccessiva celebrazione dello scontro e della supremazia fisica, messaggi entrambi decisamente ambigui e persino pericolosi visto la fascia di pubblico alla quale il film è chiaramente rivolto. Ed è ancora più paradossale il tutto considerando poi che, in fin dei conti, le scene di combattimento non sono né estremamente frequenti e né particolarmente spettacolari, impallidendo letteralmente se paragonati agli standard imposti recentemente dai cineasti e dalla filmografia orientale.


Insomma Never Back Down non ha di certo entusiasmato il sottoscritto. Ancorato a meccaniche e stereotipi ormai vecchi di decenni, il film di Jeff Wadlow ci propone un modo davvero poco credibile nel quale adolescenti ricchi e belli si pestano, senza alcuna conseguenza, alla ricerca chi della fama, chi di un ennesimo video da mandare su Youtube. Non proprio il massimo della vita.

venerdì 21 novembre 2008

[Cinema] Awake - Anestesia cosciente


Clayton (Hayden Christensen) sembrerebbe avere tutto quello che si può desiderare dalla vita: un fisico longilineo e lineamenti da modello, un conto in banca ammontate a svariati milioni di dollari e come ragazza niente meno che Jessica Alba, qui nei panni dell’adorabile e sensuale Sam. Purtroppo però il buon Clayton si ritrova con un cuore di cartone, instabile e malmesso quanto un tavolino comprato all’Ikea e montato senza istruzioni, ed è così costretto a ricorrere ad un trapianto, affidandosi alle mani del suo fidato amico Terrence Howard, medico la cui abilità è ampiamente testimoniata dalla svariate denunce per malasanità a suo carico. E’ sarà proprio una volta disteso sul letto operatorio che Clayton, complice un’anestesia non proprio ottimale, comincerà il suo viaggio a metà tra l’onirico e l’extra corporeo, rivelando suo malgrado oscure verità e sordidi inganni in un tourbillon di colpi di scena che metteranno sotto sopra il suo intero universo.


Awake – Anestesia Cosciente è una pellicola sospesa tra il thriller psicologico e il metafisico con frequenti digressioni nel dramma familiare, incapace però in tutto questo di trovare un suo centro di gravità intorno al quale far ruotare coerentemente tutti i suoi eventi. Non mancheranno certo i colpi di scena, anzi il film di Joby Harold sarà in grado di cogliere di sprovvista anche gli spettatori più smaliziati con alcune rivelazioni davvero inaspettate ma che non bastano dal canto loro a sopperire ad una narrazione sconfinante il più volte nel reame dell’illogico, disperatamente appigliata all’intervento risolutorio di un immancabile deus ex machina. Tra gli interpreti ottima la performance di Terren Howard, ormai una sicurezza, al quale fa da contraltare la prevedibile prestazione monocromatica del duo da copertina patinata Christensen/Alba, talmente minuscola in questo caso da far guadagnare ai due la nomination per i Razzie Awards, ovvero l’Oscar dei peggiori.


Non è proprio interamente da buttare l’esordio registico di Joby Harold, anche se poco ci manca. Il giovane scrittore inglese ha dato indubbiamente prova di una buona originalità di fondo, rovinata però da una realizzazione e un’esecuzione ben lontani dalla sufficienza. Andrà meglio la prossima

lunedì 10 novembre 2008

[360] Fable II



“Da bambini, durante i lunghi inverni di Bowerstone, io e mia sorella eravamo soliti guardare per ore l’imponente e maestoso profilo di Castel Fairfax, che dall’alto troneggiava su tutta la città come un benevolo sovrano. Era meraviglioso. Al tempo ci sembrava che ci bastasse osservare per un po’ la fioca luce che si intravedeva danzare dalle antiche vetrate per sentirci avvolti in un caloroso abbraccio e in un attimo, d’improvviso, sparivano freddo e fame, e non eravamo più due poveri orfanelli ma i felici figli del Conte. Non desideravamo altro che poter vivere anche noi tra le mura di quel fantastico castello, ma non sapevamo a cosa il nostro desiderio ci avrebbe condotto…
Sono passati molti inverni da allora. Mia sorella non c’è più, uccisa per via dello stesso sangue che ora scorre nelle mie vene, il sangue degli Eroi, ed è su di esso che ho giurato di vendicarla, di far pagare a Lucien il prezzo di tutte le sue malefatte e di portare finalmente la pace tra le terre di Albion. Ma le cose non sono mai così semplici come appaiono. Mi trovo a gestire un potere enorme, la gente mi insegue per strada implorando d’aiutarla, altri mi adorano e infine taluni mi temono, scappando terrorizzati al mio passaggio; dalla mie scelte derivano conseguenze che neanche io so prevedere con certezza e spesso, guardandomi allo specchio, non riesco a capire se quello che vedo riflesso sia un angelo oppure un demone. Da fanciullo ero convinto che non ci fosse niente di meglio di una fiaba. Ma era ben diverso ascoltare quelle storie fantastiche dal viverle in prima persona. E quella che sto ora scrivendo io con le mie gesta, di questo son sicuro, di certo non è una fiaba adatta ai bambini.”

Estratto del Diaro di un Anonimo Eroe


Il mondo nel pugno della mia mano


Dopo quattro anni Peter Molyneux ci riprova. Sebbene il primo Fable fosse indubbiamente un buon gioco, l’opera di Lionhead Studios fu schiacciata dall’enorme hype montato nel corso del tempo e da tutta una serie di promesse che infine non furono mantenute. Ora con questo seguito i programmatori, pur avendo mantenuto un profilo decisamente più basso in fase di promozione, non hanno certo fatto mistero di voler rimediare a tutte le mancanze che affliggevano il capostipite della serie, realizzando in tutto e per tutto un gioco che riuscisse a contenere tutti gli elementi caratterizzanti l’originale visione. E, almeno per buona parte, si può dire che ci siano riusciti. Una volta infatti conclusa la fugace fase dell’infanzia (poco più che un breve tutorial atto ad introdurre alcune funzioni base del gioco), il primo approccio che si ha con Fable II è decisamente disorientante, e questo lo si deve al fatto che, davanti ai nostri occhi, si apriranno ben presto un mare di possibili scelte e di vie da seguire. Fermi ad ammirare il via vai di passanti nel centro della piazza del mercato di Bowerstone, potremmo così decidere di far qualche soldo lavorando presso il vicino fabbro (o di rubare dalla cassa del vicino fabbro!), di spaccare la legna o di servire alcol agli avvinazzati e poi investire il guadagnato in case o nella compera di negozi, cercando pian piano di costruire un personale impero economico. E ancora, i più malvagi tra voi potranno trovare pane per i loro denti nel lavorare come freddo assassino o nel rivendere persone innocenti come schiavi, mentre per i più romantici ci sarà la possibilità di far innamorare una ragazza (o anche un ragazzo) e di avere con loro una famiglia e anche dei figli.
Perché la particolarità di Fable II non risiede tanto nella nutrita schiera di side quest presenti ma nel semplice e allo stesso tempo appagante sistema di relazioni esistente tra noi e i vari npc che popolano le lande di Albion. Potenziando e amplificando notevolmente infatti quanto già sperimentato col primo episodio, il giocatore sarà così in grado di rivolgersi agli altri mediante tutta una serie di espressioni, che vanno dall’apprezzamento allo scherno fino a bizzarre opzioni come il chiedere l’elemosina o il fingersi morto, creando così di fatto una possibilità di interagire con la popolazione unica nel suo genere, ricordando sotto questo punto di vista prodotti decisamente differenti come ad esempio The Sims. Quello che ne deriva è un mondo che, forse per la prima volta in un rpg, sembra davvero godere di vita propria e allo stesso tempo reagire attivamente alla nostra presenza, con la gente a commentare ogni nostra impresa eroica o malefatta, a deriderci se sovrappeso o ad adorarci incondizionatamente qual’ora in forma e vestiti di tutto punto. Le opzioni e le situazioni nelle quali si può incappare in Fable II sono davvero infinite e non basterebbe il più lungo dei papiri per descriverle tutte, ma basti dire che, nonostante la sua semplicità, non sarà raro voler incominciare una nuova partita spinti dalla classica domanda “e se mi fossi comportato in maniera diversa?".

Una fiaba adatta a tutti..forse anche troppo

La semplicità è una caratteristica che contraddistingue anche il sistema di combattimento e lo sviluppo delle abilità del proprio eroe. Con tre tasti adibiti rispettivamente ad attacchi all’arma bianca, colpi ranged e incantesimi, il combattimento in Fable II risulta essere estremamente intuitivo e scorrevole mantenendo al contempo un minimo di profondità, come sottolineato da mosse più avanzate come la possibilità di eseguire combo o di contrattaccare gli attacchi nemici premendo il tasto al momento giusto. Anche la gestione del nostro alter ego risulterà estremamente semplificata: l’equipaggiamento infatti consisterà solo in armi da mischia e ranged, con gli indumenti a rivestire un mero ruolo estetico (scelta questa spiegata dal non voler costringere il giocatore a indossare una determinata armatura per riceverne dei bonus in combattimento), mentre la crescita dell’eroe sarà affidata a tre statistiche basi incrementabili mediante l’esperienza raccolta dall’abbattimento dei nemici. Tutto insomma è stato fatto affinchè il gioco risultasse il più possibile accessibile ad una grande e difforme fascia di pubblico, e nonostante il pregevole intento questo ha comportato qualche effetto collaterale, riscontrabile in particolare nel livello di sfida, davvero molto basso, e in una certa penuria di armi ed incantesimi, elementi questi che potrebbero far storcere un po’ la bocca a qualche giocatore più smaliziato. Altri elementi davvero poco convincenti sono la durata e la qualità narrativa della quest principale (che in particolare soffre nel finale del così detto “effetto Halo 2”, e qui chi ha giocato il titolo Bungie capirà bene) e tutta una serie di piccoli bug sfuggiti in fase di testing che, in alcuni casi, potrebbero rivelarsi davvero fastidiosi. Inoltre, nonostante l’aggiunta del cane sia una presenza deliziosa e l’animaletto reagisca in maniera veramente sorprendente alle nostre azioni, mi sarei aspettato onestamente qualcosa di più da questo aggiunta tanto enfatizzata da Molyneux nei mesi antecedenti all’uscita del gioco visto che, a conti fatti, il nostro fidato segugio si limiterà per la maggior parte del tempo a fungere da semplice strumento per il rinvenimento di tesori e beni sotterrati e ad abbaiare in presenza di nemici.


Ma quanto parli!?

Tecnicamente infine Fable II, nonostante non sia mostro pulsante di poligoni ed effetti a tutto spiano, riesce comunque ad incantare l’occhio del giocatore grazie ad una direzione artistica deliziosa e ad una gestione in tempo reale dell’illuminazione e del ciclo giorno/notte semplicemente magnifica, regalando senza ombra di dubbio i più bei tramonti e le più incantevoli albe mai viste fin’ora in un videogioco. Molta cura è stata poi riposta negli incantesimi, davvero convincenti, mentre fa un po’ storcere il naso l’esiguo numero di skin usate per gli npc e una certa legnosità in alcune animazioni, specie quelle concernenti il combattimento all’arma bianca. Vero tallone d’achille del comparto tecnico sono però i caricamenti presenti all’ingresso di ogni zona, apparsi decisamente lunghi e in alcuni casi persino ingiustificati, specie durante le fasi concernenti lo sviluppo della trama. Assolutamente sbalorditivo è invece il comparto sonoro, dove a musiche d’atmosfera fa il paio un doppiaggio italiano mastodontico per qualità ma soprattutto per quantità del registrato, tanto che dopo oltre trenta ore spese nelle terre di Albion ancora adesso ci capita di ancora di trovarci sorpresi di fronte ad un esclamazione inedita o una frase mai sentita prima. Inoltre, qual’ora ci fosse qualche convinto anglofono tra di voi, online è possibile scaricare gratuitamente l’intero parlato in lingua originale. Chapeaux!

Conclusione

Si può dire che Fable II abbia centrato in pieno il suo obbiettivo. Inserendo tutte le caratteristiche assenti al tempo nel suo progenitore, il titolo Lionhead Studios ci cala questa volta in tutto e per tutto nei panni di un eroe, liberi di scegliere il nostro cammino e di influenzare come meglio ci aggrada il mondo circostante. L’estrema accessibilità del titolo consentirà anche ai non avvezzi al genere di divertisti senza alcun problema, mentre i gamer più “hardcore” avranno pane per i loro denti nel testare affondo ogni possibilità offerta dal gioco e nella ricerca di tutti i segreti e armi leggendarie presenti. Certo qualche difetto resta, con in particolare la quest principale a dimostrarsi davvero deboluccia sotto ogni punto di vista.

mercoledì 5 novembre 2008

[Cinema] Death Race


C’era una volta, nel lontano 1975, Anno 2000-La corsa della morte. A metà tra un episodio di Wacky Races e una partitina a Carmageddon, la pellicola diretta da Paul Barter era un bizzarro quanto riuscito episodio di sfrontata satira politica e sociale, nel quale veniva dipinta un’America governata con pugno di ferro da un ottuso dittatore e il cui sport nazionale consisteva in queste folli gare dove per far punti i piloti dovevano asfaltare con i loro bolidi il più gran numero possibile di avversari e pedoni, con bambini ed anziani a conferire ulteriori bonus (mega jackpot per le donne incinte). Humor nero, improbabili ribelli anti-governativi, insensati risvolti romantici e un Sylvester Stallone nei panni del pacchianissmo e rozzissimo Joe “Machine Gun” Viterbo. Questo era il gioiellino trash di Paul Barter.


Oggi invece, che gli anni 2000 son arrivati eccome e i remake sembrano spuntare copiosi quanto i capelli sulla testa del nostro premier, Paul Anderson ha pensato bene di riprendere in mano il materiale originale, epurarlo di un qualsiasi valore e messaggio potesse essere in esso contenuto e trasformarlo in un film alla Anderson, ovvero una pellicola nella quale ad esplosioni, scazzottate e sbudellamenti seguono ovviamente altre esplosioni, scazzottate e sbudellamenti. Così ecco Frankenstein reincarnarsi nel monolitico e imperturbabile mascellone di Jason Statham (The Transporter, The Bank Job), qui nei panni di un ex-pilota ex-operario incriminato e incarcerato per aver ucciso la propria moglie e costretto a gareggiare nella Death Race sotto promessa da parte della direttrice del carcere (una glaciale Joan Allen) di farlo uscire nel caso di vittoria. Eccoci quindi a bordo di mostruosi bolidi armati di mitra, scudi e altre diavolerie azionabili passando su particolari pedane (esattamente come in Wipeout o videogiochi simili) mentre un messicano finisce in tanti coriandoli e uno spietato killer ucraino si dimostra antipatico proprio come ci era parso nelle prime battute e colossali esplosioni e fragorosi incidenti sono intramezzati dalle immancabili battutine del caso.


Il cocktail insomma è sempre quello tanto amato da Anderson e riconducibile a tre basici elementi, ovvero azione, violenza e un’infornata di belle figliuole (tra le quali spicca la destabilizzante Natalie Martinez). L’unica differenza rispetto alle sue precedenti opere però e che, incredibilmente, qui il tutto funziona piuttosto. Perché nonostante la trama risibile e dei personaggi paragonabili a caricature di altre caricature rifacentesi a stereotipi ormai giurassici, DEATH RACE ha dalla sua una brutalità visiva assolutamente appagante e un ritmo in grado di mantenere alti i giri del motore per tutta la durata della pellicola, risultando a conto fatti in un action movie tanto rozzo quanto godibile. Promosso.