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martedì 2 dicembre 2008
[Cinema] Torno a vivere da solo
Quanto ci piace il panettone? Non ne abbiamo la più pallida idea, e non sarà certo in questa sede che andremo a scogliere il metafisico nodo che tormenta da tempo “l’intelligentia” italica, impegnata a discutere di questo in comodi salotti al suon di vespa. Quello che è certo è che al pubblico nostrano il cine-pannettone piace, e anche parecchio. In primis fu la vincente accoppiata De Sica/Boldi. Poi divenne la rivalità Boldi/De Sica. Poi ancora all’acceso agone, direttamente dalle appendici del Vesuvio, si aggiunse la verace e contagiosa comicità di Vincenzo Salemme. Ma evidentemente questo è un mercato che fa gola eccome, e quest’anno ai soliti volti se ne aggiunge un altro, quello del redivivo e rubicondo Jerry Calà il quale, dopo aver battuto un colpo con Vita Smeralda, ritorna anch’egli sulla scena cinematografica con una nuova pellicola. Libidine?
Tono a vivere da solo è il sequel diretto della commedia datata 1982 e firmata da Marco Risi (figlio del grande Dino), quel Vado a vivere da solo che consacrò definitivamente al grande pubblico l’allora nastro nascente Jerry Calà. Ora, ventisei anni dopo, Giacomino è un affermato professionista ma al contempo un poco stimato capo famiglia, ignorato bellamente dai figli e mal sopportato dalla moglie, con la quale inoltre si è anche affievolita la verve amorosa. Raggiunto infine il limite, Giacomino decide appunto di tornare a vivere da solo, riassestando con l’aiuto del collega e amico Enzo Iachetti il suo ex-appartamento e finendo per venire invischiato in una improbabile serie di fallimentari avventure amorose, tradimenti, crisi parentali (simpatica la presenza di Paolo Villaggio) e figli immancabilmente feriti dall’irresponsabilità e immaturità dei propri genitori.
La regola di un buon critico dovrebbe essere quella di non partire mai prevenuti. Ma a volte prevenire è meglio che curare, e se lo dice persino la tv un fondo di verità ci sarà pure. Jerry Calà riemerge nuovamente dagli abissi degli anni ’80 ma restandone ancora una volta però ferocemente aggrappato, imprigionato in una sorta di limbo spazio-temporale dove tutti si ripete in continuazione e nulla cambia mai. Ritornano quindi le gag a base sessuale, quelle sui gay, sulle droghe leggere, sugli appetiti delle consorti del’est Europa (qui rappresentate dalle ipnotizzanti misure di Eva Henger), il tutto mescolato e accompagnato dall’immancabile dance music fatta con la pianola bontempi, genere ballato al giorno d’oggi forse giusto da sparuti gruppi di vampiri in occulte cripte sotterranee. Non manca persino il cameo della star d’oltre oceano, l’imbolsito Don Johnson di Miami Vice, qui doppiato con un accento alla cotoletta che non mancherà di far scorrere lungo la schiena dello spettatore brividi di puro terrore.
E’ tutto maledettamente, tremendamente trash, e non è facile dire quanto questo sia voluto o meno. Quello che però è palese è che, tolta qualche buona battuta dell’intramontabile Villaggio, si ride davvero poco o nulla, restando per la maggior parte della durata del film con la bocca in una sorta di sospesa paralisi, spalancata a metà tra la noia e lo sbigottimento. Insomma una volta era addirittura doppia libidine. Oggi si fatica ad intravederne una metà.
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