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martedì 22 aprile 2008

[360] Lost Odyssey


"Il clangore delle armi e le strazianti urla di dolore dei caduti echeggiano per tutto l'altopiano di Wohl. Da giorni ormai i due schieramenti si danno battaglia senza alcuna sosta nè tregua. Da una parte l'esercito di Khent, forte della sua tecnologia e delle sue imponenti macchine belliche; dall'altra i soldati della Repubblica di Uhra i quali, coadiuvati dalla loro insuperata conoscenza dei segreti dell'energia magica, non arretrano di un passo dinnazi alle continue cariche nemiche. Tra le loro fila un uomo danza tra nuguli di nemici, delineando nell'aria con la sua spada fugaci archi di morte e distruzione, con gli avversari ad uno ad uno a finire per prostrarsi esanimi ai suoi piedi. Mentre nè la lama nè il cannone sembrano poter scalfire questo piccolo uomo, d'improvviso il cielo si squarcia in un boato, riversando sul campo di battaglia fuoco e fiamme, lava e fuliggine, fino a quando un enorme meteora mette fine ad ogni rumore. Ora sull'altopiano di Wohl tutto tace, del clangore delle armi e delle strazianti urla di dolore dei caduti resta solo il lontano eco trascinato via dal vento. Tutto tace, tutto è immobile, tranne lui. Il piccolo uomo è ancora in piedi, sguardo fisso verso il cielo plumbeo, nemmeno l'enorme meteora ha piegato le sue ginocchia. Mentre neri corvi si avventano sulle carcasse di compagni e nemici, solitario, Kaim Argonar, L'Immortale, si mette in cammino verso casa. Ovunque essa sia"

Vivere 1000 anni e non averne ricordo. 1000 anni di memorie, di amori nati e perduti, di grandi imperi sorti e poi crollati sulla loro stessa opulenza,con il tempo a piegare sotto il suo neutro volere ogni cosa eppure incapace anche solo di scalfire la soffice pelle dell'immortale Kaim.


Mystwalker esce definitivamente dalle nebbie del suo nome e con Lost Odyssey realizza, è bene subito dirlo, un grande jrpg, un titolo che dopo il non troppo apprezzato (almeno dalla critica) Blue Dragon spazza via ogni dubbio sulla presunta smarrita vena creativa di Hironobu Sakaguchi, dimostrando al contrario che la sua piccola software house è invece in grado di competere tranquillamente con quel colosso corrispondente al nome di Square-Enix. Come brevemente accennato nell'introduzione, in Lost Odyssey andremo a rivestire i panni di Kaim, immortale i cui ricordi sembrano essere svaniti, e al quale si andranno ad aggiungere una nutrita schiera di personaggi (immortali e non) accumunati tutti dal desiderio di fermare il folle Gongora, potentissimo mago con in mente il non originalissimo obbiettivo di divenire il padrone assoluto del mondo. Uno dei pregi del titolo Mistwalker è quello di essere riuscito a raccontare una storia certamente non nuova in maniera coinvolgente e ben ritmata, beneficiando enormemente in questo di personaggi ottimamente caratterizzati, che vanno dall'irriverente e guascone Jansen alla seducente e regale Ming fino al simapatico duo di bambini Cooke e Mack, quest'ultimi capaci di smorzare con la loro presenza toni a volte decisamente gravi e cupi. Ad arricchire notevolmente il valore narrativo del gioco ci sono inoltre i mille anni di sogni, ovvero brevi racconti scritti dal romanziere giapponese Kiyoshi Shigematsu che andranno a disvelare l'oscuro e dimenticato passato di Kaim, affrontando al tempo stesso temi importanti (e raramente trattati nei videogiochi) come la fede, la devozione ad un ideale, la ricerca di un significato e di una propria strada nella vita. Presentati attraverso lunghe pagine di testo accompagnate da un mix di musica e immagini appena trattegiate, questi sogni rappresentato più un'esperienza letteraria che videludica e, per quanto il sottoscritto li abbia apprezzati moltissimo, il rischio che qualcuno possa storcere il naso di fronte a 20 minuti di solo testo esiste ed è concreto, ma è sventato in extremis dalla possibilità di "skippare" completamente queste sezioni del gioco.

Dentro Old-Gen...


Come impianto di gioco, Lost Odyssey è un titolo estremamente classico: da un sistema a turni al ritorno dei vetusti e non proprio amati incontri casuali, il titolo Mistwalker appare osare ben poco in quanto ad innovazione, presentendo allo stesso tempo però alcuni piccoli accorgimenti degni di nota capaci di vivacizzare e modernizzare un po' il gameplay. Uno di questi è sicuramente la presenza di un level cap, che altro non sarebbe se non un limite al livello raggiungibile dai nostri personaggi atto a scongiurare fastidiose e tedianti fase di grinding, ovvero ore di gioco spese al mero accumulo di esperienza. Questo accorgimento, accompagnato dalla bassa frequenza degli incontri casuali, fa si che l'esplorazione dei vari dungeon sia sempre godibile e interessante e, cosa ancora più importante, rende lo scontro coi nemici (in particolare i boss) una vera e propria sfida, dove la scelta della giusta tattica e del corretto set up vanno a rimpiazzare la forza bruta e la monotona pressione del tasto attacco che spesso caratterizza gli esponenti di questo genere. L'altra novità risiede nell'introduzione della Condizione di Guardia: composta dalla somma degli hp (hit points) dei personaggi in prima linea, la condizione di guardia permette di mitigare notevolmente i danni subiti dalle unità posizionate nelle retrovie (solitamente casters), presentandosi come un vero e proprio muro a difesa dei membri più fragili del gruppo e aggiungendo così un ulteriore elemento di pianificazione strategica, con il giocatore a dover schierare con attenzione i propri eroi sul campo di battaglia e allo stesso tempo costretto a fare i conti anche con la condizione di guardia dei nemici.


Altrettanta cura ed attenzione è stata riposta nella personalizzazione e nella crescita dei nostri eroi. Divisi in mortali ed immortali, i programmatori di Mistwalker hanno optato per un rapporto simbiotico tra le due categorie, con il chiaro (e riuscito) intento di garantire ad ogni personaggio la sua utilità e presenza nel party del giocatore. Mentre infatti i mortali (divisi abbastanza marcatamente in diversi job, dal mago bianco a quello nero fino al classico tank) acquisiscono skill semplicemente salendo di livello, gli immortali ne entrano in possesso esclusivamente copiando quelle dei loro compagni e assorbento le caratteristiche dell'equipaggiamento indossato, con entrambi i procedimenti resi possibili attraverso l'accumulto di Punti Abilità elargiti durante gli scontri con i nemici. Questo sistema, di fatto, rende gli immortali in grado di imparare ogni singola abilità del gioco e, pur essendo anche loro divisi in maniera piuttosto netta in diverse classi d'appartenenza, sul finire del gioco la differenza tra mortali e non sarà decisamente marcata, finendo per sminuire l'importanza dei compagni non dotati di vita eterna. L'ultimo elemento di personalizzazione risiede infine nella presenza di un Ring System, ovvero di anelli craftabili dal giocatore combinando diverse materie prime in grado di aggiungere vari effetti speciali ai nostri attacchi, attivabili mediante la pressione in real time del grilletto destro in un dato momento, ricordando neanche troppo lontanamente la Gunblade di un certo Squall.

..fuori Next.


Tecnicamente il titolo sviluppato da FeelPlus (software house appositamente creata da Mistwalker per l'occasione) è un legittimo figlio del suo tempo. Il gioco infatti si presenta con un comparto grafico imponente e, fregiandosi dell'ormai abusatissimo Unreal Engine, sfoggia tutta una serie di effetti speciali di ottimo livello, dal bump mapping ad un preg
evole effetto di sfocatura sugli elementi posti in secondo piano. Putroppo però la poca esperienza del neonato team di sviluppo ha portato ad una certa incostanza nella resa grafica, con aree magnifiche a lasciare dolorasmente il passo ad altre afflitte da un uso di texture scadenti e una mole poligonale inspiegabilmente esigua, creando così uno stacco distonico decisamente fastidioso. I personaggi, seppur minuziosamente dettagliati e disegnati dall'abile matita di Takehiko Inoue (autore di grandi manga come Vagabond e l'esilarante Slam Dunk), soffrono anche loro di qualche problemino, in particolare di una certa rigidità nei movimenti e nelle espressioni, oltre che in qualche sfarfallamento di troppo di texture e ombre.


Assolutamente irreprensibile è invece il comparto audio: Nobuo Uematsu questa volta ha infatti superato se stesso, realizzando una colonna sonora a dir poco magnifica, capace di connubiare musica classica a influenze moderne ed elettroniche senza la minima flessione qualitativa. Dal battle theme (probabilmente uno dei migliori mai realizzati) alla commovente Parting Forever, accompagnamento musicale di buona parte dei mille anni di sogni, il compositore giapponese ha estratto dal suo cilindro incantato delle melodie che resteranno a lungo nella memoria dei giocatori alla pari di alcune di un'altra delle sue opere migliori, la colonna sonora dell'indimenticato (e indimenticabile) Final Fantasy VII. A coronamento di un comparto sonoro di prim'ordine abbiamo un doppiaggio interamente in italiano che, seppur non raggiungendo le vette di un Mass Effect (specie per alcune scelte di traduzione non sempre felici), si attesta comunque su livelli più che buoni, sopratutto grazie all'interpretazione di alcuni tra i più noti doppiatori del nostro paese.

In conclusione, Lost Odyssey rappresenta la summa di tutto il lavoro decennale svolto da Hironobu Sakaguchi e un omaggio al genere che egli stesso ha contribuito a creare ed imporre al grande pubblico. La cura riposta in ogni dettaglio, le miriadi di side quest, minigiochi e boss segreti presenti, tutto rimanda ad un'epoca probabilmente ormai passata che Mistwalker ripropone ai giorni nostri in una sfavillante versione patinata. In attesta che il genere si svincoli dalle vecchie abitudini e trovi nuova collocazione nell'odierno panorama videoludico, Lost Odyssey chiude il ciclo affermandosi come uno dei migliori jrpg degli ultimi anni e acquisto fondamentale per tutti gli appassionati.

giovedì 17 aprile 2008

[Cinema] L'Amore Non Basta


Martina (Giovanna Mezzogiorno) è un’assistente di volo dal destino incerto, divisa tra la sua carriera lavorativa ed un percorso universitario che proprio non riesce a completare. Un giorno, durante un viaggio di linea, si imbatte in Angelo (Alessandro Tiberi), un ragazzo timido e sognatore, che come lei vive in un piccolo paese dell’Abruzzo e del quale rinviene il diario d’amore, dimenticato da lui sull’aereo. Sfogliandolo, e leggendo le dolci parole scritte da Angelo, Martina sembra sviluppare un sentimento d’amore per il ragazzo, sentimento in realtà preesistente, perché i due si amano già da tempo e portano avanti una relazione costellata di continui addii e riconciliazioni.

L’Amore non basta è una pellicola sospesa, un insieme di personaggi apparentemente senza copione, dove la macchina da presa non traccia un selciato ma dà anima e respiro a situazioni, conflitti, turbamenti che si mescolano in un lento vortice di emozioni e fragorosi silenzi. Stefano Chiantini non vuole imprimere nessuna direzione particolare alla sua opera, ma mettere semplicemente in scena la vita per quello che è, con l’incomunicabilità e l’isolamento tipici del nostro tempo, il disorientamento, la dicotomia tra il reale e l’onirico. Così abbiamo Angelo che, mentre sogna di affermarsi come scrittore, passa da un lavoro saltuario all’altro discutendo animatamente e chiedendo continuamente consiglio a Rocco Papaleo, qui negli eterei panni di amico immaginario. Proprio il personaggio di Alessandro Tiberi è una delle note più originali del film, ricordando alla lontana altri figure sconnesse, in particolare lo Stephane di L’arte del Sogno, mancando completamente però dello splendore immaginifico e della potenza visionaria di cui era dotato il protagonista dell’opera di Michel Gondry.

E’ proprio nella sua godibilità che risiede alla fine dei conti il tallone d’Achille di tutta quanta l’architettura messa su da Stefano Chiantini. Nonostante infatti alcune pennellate di colore sapientemente date dalle presenza scenica di Papaleo, il film soffre del suo incedere lento ed errabondo, con gli eventi quasi a ristagnare nei claustrofobici vicoli di una città d’Aquila appena tratteggiata e con lo spettatore a rischio di perdersi anch’egli tra le fobie e le illusioni di Angelo e Martina, ai quali in ultima istanza l’amore, davvero, non basta proprio.

martedì 15 aprile 2008

[360]Viking: Battle for Asgard




Nubi minacciose si stagliano sui verdi prati di Midgar: Hel, figlia di Loki e regina degli inferi, ha mosso infatti guerra contro Asgard e, nel tentativo di liberare Fenrir e scatenare il Ragnarok (il giorno dell’apocalisse nella mitologia nordica), ha invaso le terre dell’uomo con la sua legione di guerrieri non morti e resi schiavi i suoi abitanti. Ultimo baluardo dell’umanità è Skarin, eroe vichingo incaricato dalla divinità Freya dell’arduo compito di ribaltare le sorti della battaglia, liberando i suoi compagni in armi ora prigionieri e mediante il loro aiuto formare un esercito in grado di sconfiggere la perfida Hel una volta per tutte, scongiurando così la venuta del grande inverno e le distruzione del mondo..

Questa in breve la premessa narrativa dell’ultima opera dei Creative Assembly i quali, tre anni dopo aver pubblicato Spartan: Total Warrior, tornano nuovamente a cimentarsi con un hack and slash realizzando un titolo che unisce l’immediatezza propria del genere di appartenenza ad alcune trovate interessanti. Ma riuscirà Viking: Battle for Asgard a mantenere alto il nome del team britannico (divenuto celebre grazie alla serie Total War) o questo vichingo è destinato a cadere rovinosamente in battaglia?


Io..Free roaming


La prima caratteristica di Viking che salta subito all’occhio è indubbiamente la sua natura free roaming, con Skarin libero di girovagare per una delle tre isole presenti nel gioco nel tentativo di liberare i suoi compagni in cattività: niente divisione in livelli né caricamenti dunque, ma un’enorme area di gioco dall’approccio non lineare, definita da alcuni punti di interesse dove andranno a svolgersi le quest principali. Come in un rpg di stampo occidentale infatti il nostro nerboruto vichingo verrà incaricato di volta in volta da alcuni npc di svolgere delle missioni per loro, dal liberare una distilleria dalla presenza nemica (i vichinghi adorano bere) al conquistare una torre fino all’impadronirsi di antiche rune in grado di evocare draghi al nostro servizio nelle battaglie campali. Una delle missioni sicuramente più interessanti è quella nella quale ci verrà richiesto di intrufolarci nell’insediamento nemico per recuperare un oggetto di importanza strategica; in questi frangenti il titolo dei Creative Assembly assume i lineamenti di uno stealth game rudimentale, con il nostro eroe a scorrere silenzioso accanto a nutrite pattuglie nemiche, restando nascosto nell’ombra e eseguendo quando necessario delle brutali quando appaganti uccisioni silenziose.



Se quindi inizialmente il buon numero di diversi incarichi lascerebbe presagire un’esperienza di gioco sufficientemente diversificata, è proprio nelle assidua reiterazione degli stessi che risiede uno dei maggiori difetti di Viking: in ogni isola infatti ci saranno sempre una distilleria/segheria/fattoria da riconquistare, un drago da evocare e un folto numero di nostri compagni in attesa di essere liberati dalle grinfie del nemico, portando immancabilmente nelle battute finali ad una forte sensazione di deja vù e ripetitiva che potrebbero far storcere la bocca anche ai più appassionati. Inoltre, la poca chiarezza nell’esporre il preciso scopo di alcuni incarichi, potrebbe portare il giocatore a sentirsi momentaneamente sperduto, incapace di decifrare con chiarezza la prossima meta del suo viaggio, complice anche un mappa non sempre di facilissima lettura.


Per Odino, di botte ti rovino

Per fortuna però Viking riesce a rendere la progressione nel gioco sempre accattivante grazie ad un sistema di combattimento intuitivo ed appagante, che scongiura il pericolo del button smashing decerebrato con la presenza di nemici finalmente aggressivi e vulnerabili soltanto a specifiche tecniche d’attacco. Inizialmente dotato di un parco mosse assai ridotto, il prode Skarin potrà affinare la sua arte della guerra convocando in apposite arene gli spiriti del Valalla, i quali mediante un adeguato pagamento in denaro (la birra si paga anche da morti evidentemente) saranno ben lieti di insegnargli le loro letali tecniche. Ecco quindi il giocatore che con il procedere dell’esperienza sarà in grado di infrangere gli spessi scudi dei nemici con un brutale colpo d’ascia o di dilaniarne direttamente le carni con un netto affondo alle spalle, fino ad arrivare all’apprendimento di una letale contromossa capace di porre fine immediatamente allo scontro nella maggior parte dei casi. L’armamentario del nostro vichingo sarà infine ampliato dalla presenza di tre rune magiche (fuoco, ghiaccio, fulmine) con le quali potremmo dotare le nostre armi del rispettivo elemento, e dall’utilizzo di coltelli da lancio e vasi incendiari, quest’ultimi particolarmente utili negli enormi scontri tra eserciti.



Gli scontri tra eserciti, come non parlarne: una volta liberati soldati a sufficienza e messi al sicuro tutti i punti strategici del territorio, Skarin sarà in ultimo capace di convocare le sue truppe e portare un assalto diretto alla fortezza avversaria, dando così vita a battaglie su grandissima scala durante le quali dovremmo farci strada tra un nugolo di nemici cercando di abbattere gli sciamani avversari (unità capaci di resuscitare i compagni caduti), al seguito della cui morte la battaglia sarà vinta. Per far questo, oltre ad affondare le nostre lame direttamente nell’esile corpo di questi praticanti d’arti magiche, il giocatore è libero di affrontare i campioni della legione di Hel (tra i quali figurano anche alcuni imponenti giganti), e abbattendoli conquistare rune magiche con le quali incaricare i nostri draghi di portare la distruzione dall’alto, aggiungendo così anche un piccolissimo tocco strategico al tutto.


Un’esperienza quasi Zen


Dal punto di vista prettamente grafico, Viking è un titolo di buonissimo livello che, a fronte di personaggi modellati con un numero non proprio elevatissimo di poligoni, riesce a mettere su schermo delle scene di rara bellezza e epicità, in particolare nelle battaglie campali, letteralmente straripanti di unità e di azione, con centinaia di unità ad affrontarsi sul campo di battaglia mentre dal cielo draghi fanno strage di arcieri e la pioggia si riversa copiosa su ogni cosa. Anche nelle situazioni meno affollate il gioco sa essere suggestivo, regalando scorci che vanno dalle vallate innevate della candida Isaholm alle fucine di Niflberg zampillanti di lava e fuliggine, senza dimenticare il gradevole effetto scenico che segue ogni liberazione di una località dalle grinfie della legione di Hel, con nubi ed oscurità a lasciare il posto al sereno. Certo, qualche magagna resta: nella scene più popolate il motore grafico perde per strada più di qualche frame, portando in rari casi ad uno sgradevole effetto rallenty, e gli npc soffrono di una penuria di skin abbastanza imbarazzante, tanto che anche i vari quest givers appariranno come una serie infinita di cloni dopo appena una manciata d’ore di gioco. Il vero tasto dolente però di Viking risiede nel comparto sonoro, o più precisamente nella sua assenza: escluse infatti le battaglie maggiori, per tutta la durata del gioco infatti l’unico accompagnamento alle nostre brutali gesta (mutilazioni e smembramenti occorono copiose in Viking) sarà il fruscio del vento tra le fronde degli alberi o il cinguettare di qualche uccellino, dando all’esperienza un sapore quasi bucolico che mal si sposa con il carattere violento e bellicoso dell’azione, finendo irrimediabilmente per togliere il giusto patos al tutto. Peccato, perché quando si degnano di fare capolino le musiche sono più che all’altezza, ed inoltre il titolo può vantare un doppiaggio interamente in italiano di ottimo livello, sia per recitazione che per la qualità della traduzione.



Commento finale.


In definitiva Viking: Battle for Asgard è un titolo indubbiamente valido, capace di offrire un sistema di gioco che spinge continuamente il giocatore ad andare avanti e un gameplay semplice ed appagante. Certo, l’ultima fatica dei Creative Assembly soffre di alcune pecche non proprio veniali, fallendo in particolare nell’offrire una più ampia varietà di obbiettivi e di situazioni, ma resta comunque un’esperienza caldamente consigliata a tutti gli amanti degli hack and slash e delle ambientazioni fantasy, e ancora di più a quelli che, come il sottoscritto, nell’intimo covano un piccolo Aragorn pronto a scendere sul campo di battaglia a spada sguainata.

venerdì 4 aprile 2008

[360] Stranglehold


"L'Artiglio del Drago, la più potente gang della triade di Hong Kong, è minacciata da una banda emergente decisa ad assumere il controllo di un business che da trent'anni è nelle mani di Mr. James Wong. I collegamenti con la polizia di Hong Kong spingono Wong a cercare l'aiuto di un cinico veterano, l'ispettore Tequila Yuen, per ritrovare figlia e nipote vittime di un rapimento.

Tequila, con il suo modo particolare di agire e perseguitato da rapporti che in passato lo avevano legato a Wong, si fa strada dai vicoli di Kowloon fino ai piani alti dell'elite di Chicago tentando di uscire indenne dal fuoco incroci
ato della guerra per il controllo del redditizio commercio di eroina ad Hong Kong."

Queste le premesse (prese di peso dal manuale di gioco per congenita pigrizia) che fanno da sfondo al primo gioco presentato da John Woo. Ebbene si, proprio lui, l'inventore delle sparatorie slow motion e dell'effetto "colomba bianca" approda a sorpresa nel mercato videoludico con Stranglehold, che altro non sarebbe se non il seguito di una delle più famose opere del regista asiatico, il sanguinolento Hard Boiled. Ad accompagnarlo in questa nuova avventura abbiamo un altro autentico mito di Hong Kong, Chow Yun-Fat, che qui ritorna nelle (digitali) sembianze dell'ispettore Tequila, poliziotto tutto d'un pezzo alla prese con un sporca, sporchissima faccenda, nella quale si farà strada attraverso un'infinità di sparatorie e trilioni di cadaveri.


Il gioco dei ragazzi della Tiger Hill si presenta con una classica impostazione da shooter in terza persona, con la telecamera saldamente alle spalle del protagonista mentre ne segue le varie spericolate evoluzioni. In pieno stile John Woo infatti, l'ispettore Tequila è in grado di esibirsi in una serie di manovre spettacolari, dall'appendersi ad un lampadario al correre su una ringhiera, dallo sparare mentre scivola su un carrello al centrare i nemici in piena fronte dopo un tuffo all'indietro. Durante queste evoluzioni, in presenza di nemici nei paragi si attiverà automaticamente il Tequila Time, ovvero una sorta di rallenty in stile bullet-time (Max Payne insegna) che, oltre ad incrementare enormemente la teatralità dell'azione, ci permetterà di prendere la mira con molto più agio. Uccidere i nemici mediante l'uso del Tequila Time sarà fondamentale per raccogliere Punti Stile, valuta essenziale per usufruire delle Bombe Tequila, abilità uniche e speciali ad esclusivo appannaggio del nostro intrepido sbirro: mediante il riempimento dell'indicatore circolare posto nell'angolo in basso a sinistra dello schermo sarà infatti possibile accedere a queste particolari mosse, che vanno dal ripristino parziale di energia ad un'attacco rotante in grado di far mangiare del piombo caldo a tutti i nemici presenti su schermo. Tra queste le due abilità più importanti sono senza ombra di dubbio Mira Precisa, attraverso il cui utilizzo Tequila può colpire a grandi distanze scegliendo con cura la parte del corpo dove infierire (eseguendo così gli "headshot" fondamentali per prevalere contro i boss del gioco), e Fuoco di Sbarramento, ovvero una sorta di berserk mode durante il quale il giocatore sarà invulnerabile e graziato da munizioni infinite e una velocità di fuoco maggiorata.


Oltre a sparare ad ogni essere umano presente su schermo, il nostro eroe potrà liberamente accanirsi contro ogni elemento dello scenario: vero cavallo di battaglia e vanto del titolo Midway è infatti l'elevatissima interattività del mondo che circonda Tequila, pronto a sgretolarsi, esplodere e frammentarsi sotto i nostri colpi e quelli dei nemici. Dagli enormi scheletri di dinosauro in un museo alle macchine di un parcheggio sotterraneo passando per delle antiche statue cinesi, tutto ciò che è presente su schermo è infatti predispoto a reagire realisticamente alle sollecitazioni del caso offrendo, oltre ad un incredibile spettacolarità, anche qualche elemento strategico. Tequila infatti potrà prendere riparo dai proiettili dietro a muri e tavoli ribaltati, ma dovrà anche fare attenzione al loro stato di usura, perchè anche la più resistente delle colonne non resisterà molto sotto il fuoco incrociato di una decina di mitra. Per finire inoltre, in dei punti prestabiliti, Tequila si troverà a dover affrontare dei nemici in una sorta di duello multiplo, nel quale il nostro ispettore dovrà scansare i proiettili nemici e nel mentre cercare di far fuori tutti i suoi sfidanti.


Se quindi sulla carta Stranglehold mette sul piatto un'offerta apparentemente ricca, all'atto pratico fallisce abbastanza clamorosamente, presentendo un'esperienza di gioco tremendamente ripetitiva già dopo le prime battute. Complici infatti un game design incapace di offrire una vera diversificazione degli obbiettivi proposti, il giocatore si troverà a dover affrontare continuamente ondate e ondate di scagnozzi, in un numero talmente elevato da far sembrare uno come Rambo un imbelle pacifista. A rendere ancora peggiore la situazione vi sono altri elementi deleteri, dalla totale mancanza di IA dei nemici al loro respawn continuo e apparentemente paranormale (nel senso che il più delle volte sembreranno apparire letteralmente dal nulla) che, complice una telecamera clauticante nello stare dietro all'azione frenetica, renderà problematica persino individuarne l'ubicazione, col giocatore a perdere secondi preziosi sotto una
piogga di proiettili prima di poterne localizzare i diretti responsabili. A conti fatti, il titolo dei programmatori di Tiger Hill si riduce ad un furioso e caotico sparare a qualsiasi si muova sullo schermo, fiondandosi appena possibile sugli onnipresenti med kit, indispensabili nel proseguimento data l'estrema difficoltà nel non riportare danni durante le infinite sparatorie.


Tecnicamente Stranglehold è un titolo discreto: a fronte della già citata enorme interattività dell'ambiente, abbiamo personaggi costituiti da uno scarso numero di poligoni e texture opache, il tutto penalizzato dalla totale assenza di bump mapping o effetti di luce degni di nota. Decisamente meglio il comparto sonoro il quale, oltre a poter vantare ottime musiche e una grande varietà ti effetti speciali tutti ottimamente realizzati, si può anche fregiare di un doppiaggio interamente in italiano di ottima fattura, con dialoghi curati e dal sapore fortemente cinematografico. Il primo esperimento di John Woo nel mondo dei videogiochi è quindi, per chi parla, un mezzo fiasco: per quanto infatti il titolo in questione riesca a ricreare perfettamente la spettacolarità e l'adrenalina dei film del cineasta orientale, dal punto di vista meramente "giocoso" Stranglehold si rivela un'esperienza decisamente grezza e noiosa quasi fino all'esasperazione, alla quale va aggiunta una modalità single player molto breve e una multiplayer dimenticabile. La stampa specializzata in generale lo ha accolto abbastanza bene, ma per il qui presente questa nuova avventura dell'ispettore Tequila si è rivelata un vero involtino primavera avvelenato.